Luca Bray è un artista, pittore e scultore. Nato a Orzinuovi (Brescia), nel 1971, ha vissuto sedici anni in Messico e vanta una strabiliante carriera espositiva. Incontrarlo, guardare le sue opere, ascoltarlo parlare è un piacere per l’anima e una gioia degli occhi. Luca è cordiale, solare, brillante come i suoi colori. E i suoi pensieri, anche inconsueti, inaspettati, arrivano in profondità, come i suoi quadri.
Luca Bray, niente mi fermerà
Grazie, Luca, per l’energia, le parole che innesti nelle tue opere. E per i tuoi colori, soprattutto per il blu: perché vale così tanto per te, cosa ci trovi?
Ci trovo assolutamente la vita. Può essere un mare ma insieme il cielo, due immensità. Mi ci tuffo o ci volo. Quando inizio un quadro con il blu mi sento come fossi ‘drogato’. Nel blu si creano sensazioni incredibili: ha un potere magico. C’è nei miei quadri da quando sono stato in Messico, dove l’hanno chiamato il “blu Bray”.
Hai sempre voluto viaggiare, vedere, incontrare persone in giro per il mondo. Perché?
Se non viaggiassi, se mi rintanassi tutto il tempo nel mio studio, non riuscirei a dipingere nulla. Non avrei niente da raccontare. Viaggiare vuol dire incontrare storie: le ascolto e le faccio mie. Così entrano nei miei quadri e negli occhi di chi li guarda.
Come ti ispirano i luoghi in cui vai a vivere?
Ormai il Messico è diventato una base, per il lavoro, le amicizie. Lì ho la mia seconda casa. Ma il mondo intero è diventato la mia casa. Ho vissuto realtà incredibili. Mi è capitato di andare per nuove esposizioni delle mie opere in Cambogia, a Manila, mesi prima della data di inaugurazione, senza nient’altro che i miei colori. I quadri dell’esposizione li ho dipinti lì, ispirati dalle storie incontrate sul posto.
Cosa hai imparato in tutto questo tuo andare a vivere in posti diversi?
Ho imparato quanto vale saper ascoltare le persone. E ho imparato il rispetto, che a Tokio a volte mi sembrava persino eccessivo. Poi mi sono chiesto: “ma è meglio troppo o niente?”. E sono arrivato alla conclusione che, piuttosto che niente, è meglio troppo.
Nei tuoi quadri ci sono sempre parole, tra i colori di cielo, mare e nuvole sfumate. Perché scrivi sulle tele che dipingi?
La tela tutta bianca mi fa un po’ paura. E allora, prima di iniziare a dipingere, prendo il carbone e scrivo: una parola, una frase, una specie lettera a me stesso. Quelle parole diventano la base della storia che voglio raccontare: ci coloro sopra, poi metto altre parole e sopra ancora altre mille sfumature. Alla fine, come per magia, sembra quasi che i colori trovino la meta che cercavo e le parole più importanti della lettera escano dall’acqua, da sotto la superficie dipinta. A quel punto mi fermo e firmo il dipinto.
Ti racconto io una storia, che in realtà conosci meglio di tutti. Un giorno di diversi anni fa, a Milano un neurologo ti ha detto: “Luca hai la sclerosi multipla. Adesso fermati, rimani tranquillo, evita i posti caldi. Scordati il Messico: devi stare in Italia e curarti. La sclerosi multipla è una cosa seria”. E tu?
Presi l’indicazione del medico come un consiglio, non come un imperativo inderogabile. Quello stesso giorno mi dissi: “ok, ho la sclerosi multipla ma non ci sarà mai niente di ciò che desidero che io non possa anche riuscire a fare”. Anche adesso è così: faccio tutto quello che voglio come posso. Così rimango libero. Niente può limitarmi. Quella volta della diagnosi, infatti, sono andato a comprarmi una casa a Cancun, dove ci sono sempre 40 gradi!
E oggi, come va?
MI curo e continuo sulla stessa scia. Magari mi risulta difficile andare in una città come Venezia, con tutti quei ponti. Ma ci vado lo stesso. Se non riesco a vedere tutto, guardo quello che riesco. E quell’angolo che vedo mi rende felice. Non mi ha mai fermato niente. E nessuno mai mi fermerà. La mia migliore cura è la mia mente.
Questo colpisce: la sclerosi multipla sa fermare le persone. Ma tu trovi sempre nuovi modi di metterti in movimento.
Non dirò mai: “meno male che ho avuto la SM”. Ne avrei fatto a meno, potendo scegliere. Ma la sclerosi multipla non mi ha tolto la mia vita. Ora vado più piano di prima. Ma, rallentando, posso vedere di più, ascoltare meglio gli altri. Ho tempo per accorgermi di ciò che mi circonda. Se anche riesco a fare solo 15 metri e poi devo fermarmi, quei pochi metri devono avere un valore, devo ricavarci qualcosa e non passare oltre distrattamente. Sono una persona molto curiosa. Girando lentamente, mi capita di vedere porte aperte. E, se la porta è aperta, io ci entro.
Ora vivi a Lecce. Che anima ha il Salento per un artista come te?
Ho sempre cercato di vivere vicino al mare, in Messico, a Shangai, in Australia. Questo mare del Salento, a differenza di tutti gli altri, mi appartiene, è famiglia. Qui vedo sempre mio padre, che non c’è più. Mi sento a casa. Al sicuro.
Tra le storie che hai vissuto e incontrato, qual è la più importante?
Una cosa devo dirti: non sono mai stato solo, in nessun posto. Ho una storia d’amore molto bella, da 28 anni, con un artista che ho conosciuto a Città del Messico.
È Alec Von Bargen, visual artist, fotografo e produttore.
Come lo sai? Sì, è lui. L’ho incontrato a Città del Messico. Io, nato in un piccolo paese del bresciano, lui a New York, da una famiglia tedesca. Allora era un attore famoso delle telenovelas e aveva già girato il mondo. Ci siamo innamorati. E siamo partiti per un viaggio che dura ancora. Io col mio lavoro di pittore. Lui oggi collabora con la Biennale di Venezia e il Torino Film Lab. Sta conquistando l’Italia. Ed è il mio bastone. Siamo riusciti a trovare una forte sintonia. Capisce quando faccio fatica, arriva sempre prima che diventi estrema e me ne toglie la metà.
Uno dei tuo quadri mette in luce “un fuego de amor”. Cosa è per te l’amore, Luca?
Non c’è relazione per me che abbia un senso se non ha un fuoco d’amore. Cerco di fare in modo che ogni secondo, non di domani, ma di oggi, sia speciale. Domani, sarà un altro giorno. Ma adesso io devo amare ed essere amato. Sono da sempre e per sempre un patetico innamorato.
Ci sono parole della vostra vita insieme che hai particolarmente care?
Un giorno insistevo nel chiedere ad Alec di dirmi quali fossero le cose fondamentali della sua vita. E lui mi ha risposto: “Due. Tu e il mio passaporto”. E allora ho cercato di esserci sempre. Nella sua vita e anche nel suo passaporto.
Nel tuo modo di vivere c’è anche l’impronta di tua mamma: cosa ti ha insegnato di potente?
Lei ha più di ottant’anni ed è una forza della natura. Ha una malattia cui deve stare sempre attenta. Eppure non si ferma. Esce la sera, va a ballare, non è mai stanca. Un giorno le ho chiesto che sogno avesse. Mi ha detto che avrebbe voluto trovare la casa bruciata. Perché così sarebbe iniziato un cambiamento radicale. Cambiare fa bene. E poi, se non ci attacchiamo troppo alle cose che abbiamo, la vita è più leggera. Più libera.
Ti propongo, per un prossimo quadro, l’ispirazione di una poesia di Marilisa Andretta: “per un lieto fine sono disposta a tentare”. Qual è il lieto fine che oggi desideri per il nostro mondo, in questo tempo di conflitti disumani?
Non mi piace come è diventato il mondo, né come siamo diventati come persone. Abbiamo poco rispetto per gli altri. Oggi sembra impossibile essere ascoltati attentamente. Sembra che gli altri siano disponibili ad ascoltarti solo se dici banalità. Il mio desiderio sarebbe, un giorno, vedere vincere questo rispetto, in ogni persona e in ogni angolo del mondo.
Spesso mi sono detto che ascolto e rispetto dell’altro sono la vera essenza di un’associazione. Come vivi, Luca, la tua relazione con AISM?
Quello che fate in AISM è incredibile. Più di tutto mi colpisce una cosa: ci lavorano persone che non hanno la sclerosi multipla. Potrebbero starsene lontani e invece dedicano la vita per dare risposte ai bisogni di tante persone come me. Provo una gratitudine profonda per tutti quelli che si spendono in AISM.
Luca è anche nostro testimonial, e sempre felice di promuovere i nostri eventi. Grazie!