«Sai che oggi ho intervistato Lorenzo Branchetti, l’attore che faceva la Melevisione?»
«Chi, Milo Cotogno? Che carino lui e che bella la Melevisione! Dalla nonna la guardavo sempre, al pomeriggio».
Mia figlia ha 17 anni, quasi 18, non è più una bambina. Ma quando le ricordo la Melevisione, le vengono gli occhi a cuoricino e inizia la saga dei ricordi, uno dopo l’altro, come le ciliegie.
E Lorenzo Branchetti, nostro testimonial, amico di AISM, è proprio come ricordava mia figlia: sorride dolcemente, è simpatico a pelle.
«La Melevisione è il mio talismano, un successo senza tempo. Ci ho vissuto dentro per più di dieci anni. E con le repliche, siamo ora arrivati a diciannove anni di messa in onda delle puntate con Milo Cotogno. Una cosa magica. Quando sono entrato mai avrei pensato: “ah, tra 15-20 anni si ricorderanno di quello che faccio adesso”. E invece ricevo quotidianamente messaggi di affetto totale nei confronti miei e del programma. Trovo ragazzi oggi adulti che scoppiano in lacrime. Magari la Melevisione era il momento di un giorno difficile che riusciva a strappare qualche sorriso. Credo di essere stato come un fratello maggiore per questi ragazzi».
Ma come ci sei arrivato, tu, alla Melevisione?
«Sogno di fare l’attore da quando sono bambino. I miei vecchi compagni delle elementari mi ricordano che già allora raccontavo barzellette e imitavo i maestri. A 19 anni mi sono trasferito a Roma e ho iniziato la classica gavetta. Ho cominciato a recitare nei teatri, ho fatto provini su provini, ho ricevuto porte in faccia. Fino a quando un giorno, a 22 anni, mi è capitato questo provino importante. Cercavano un volto per Milo Cotogno, il protagonista del programma più visto della televisione italiana per bambini».
E come li hai convinti a prendere te?
«Una delle autrici mi ha detto: “ma tu sei già un folletto, non hai bisogno di recitare per sembrarlo”. Io avevo questa faccia simpatica, gli occhioni, le orecchie a sventola. Poi nel provino c’era un vecchio regista, che ci ha visto lungo: sosteneva che avevo del talento, una faccia moderna. In più sapevo cantare. Mi ha scelto e sono entrato così in questo mondo meraviglioso».
Dopo tanti anni, cosa è rimasto in te di Milo Cotogno?
«Negli anni Lorenzo e Milo Cotogno si sono molto uniti, sono diventati quasi la stessa persona. A vent’anni mi piaceva fare un po’ l’alternativo, quello fuori dagli schemi, come nei cliché di chi vuole essere un artista. Ma negli anni ho capito che io sono Milo e quello del folletto mite è il mio stile di vita. Sono il quarto fratello e ancora oggi siamo molto uniti, attaccati, coi miei fratelli e con la mamma. Il babbo purtroppo non c’è più».
E ti manca ancora: c’è sul tuo profilo Instagram un post in cui, davanti all’albero di Natale, invece che pensare a Babbo Natale, racconti di come ti mancasse, a Natale, il tuo babbo …
«Nell’albero di Natale, così bello nella sua serenità, nella sua pace, io ho rivisto il babbo. Mi piacerebbe ascoltare ancora una volta uno dei suoi racconti. Mi manca tanto la sua voce. Col tempo, dopo il dolore per la perdita, impari a vivere in un altro modo la relazione. Oggi lo sento molto presente, ovunque. Lo sento vicino nella mia casa di Torino, lo sento nella casa della mamma a Prato. Ho imparato ad ascoltarlo, col cuore e questo mi dà serenità».
C’è spesso anche la tua cagnolina Birba nei tuoi racconti…
«Hai detto un nome che mi fa sciogliere. Io da sempre amo gli animali. Da piccolino avevo un’altra cagnolina. Quando morì, vidi per la prima volta piangere i miei genitori. Da allora mamma non ne volle altri. Ma, quando babbo, nell’ultimo anno, non stava molto bene, con mio fratello proponemmo di riprendere un altro cagnolino, per distrarlo un po’ dal suo dolore. Quella volta mamma accettò. Siamo andati in un canile, cercavamo uno dei cani che vengono abbandonati. Un cane tranquillo. Invece mamma vide questa cagnolina e volle lei. Dopo pochi minuti, l’abbiamo chiamato Birba perché era vivacissima. Lei si è innamorata e io mi sono innamorato di lei. Birba per me è amore vero. Ora che ne parliamo, non vedo l’ora di essere lì con lei».
Una domanda alla Marzullo: ti chiedi mai chi sei e cosa vuoi fare?
«Sono un maschio adulto, ma non troppo, con un animo fanciullesco. Mi sento ancora ragazzino: non c’è fretta di maturare. Sono una persona fortunata, ho raggiunto quello che desideravo. E questo resta un elemento decisivo della mia vita: vorrei continuare ad avere tanti sogni per poterli realizzare. Ho imparato negli anni che la vita è veramente una ruota. Ci sono momenti fantastici e altri in cu sei schiacciato da tutto e non vedi via di uscita. E lì ci vuole sempre forza, resistenza. Devi restare convinto che prima o poi la ruota girerà e il peso che ti schiaccia e sembra invincibile, a un certo punto, non ci sarà più. A un certo punto, le cose migliorano. A me è capitato tante volte. Per questo credo che la vita sia bella: godiamocela, nelle gioie e nei momenti difficili».
Oggi che la ruota gira bene, sei sempre in onda con la striscia quotidiana della “Posta di Yoyo”, insieme a Carolina Bencivegna. Come sono i bambini dei nostri giorni?
«I bambini sono cambiati, è vero, ma sono sempre bambini: gli dai un foglio di carta, un pennarello e loro disegnano. A volte arrivano disegni incomprensibili per noi e bellissimi per loro. Ho passato diciannove anni della mia vita a comunicare con loro, ad ascoltarli. Non ho figli, ma quelli che ho cresciuto sono come i miei piccoli fratelli. E so che ogni disegno è fatto col cuore ed è unico: ci si impegnano al massimo, ci mettono amore. Sono la vera purezza del mondo e noi adulti dobbiamo farli crescere bene, con valori sani, autentici. Se ci riusciamo, magari domani avremo un mondo migliore».
Che rapporto hai, Lorenzo, con la malattia e con la salute?
«Guarda, a fine dicembre ho avuto l’influenza e la febbre a 40. E sai che ti dico? Per fortuna ero a Prato con la mamma. Sapere di avere qualcuno accanto, un sostegno, che non ho quando mi succede la stessa cosa a casa mia, a Torino. Mi ha dato forza di affrontare la situazione. In un contesto più grande, posso capire quanto sia importante, quando una persona affronta una malattia, farlo con qualcuno accanto. Una parola, un sostegno, magari un supporto economico cambiano tutto».
È per questo che hai scelto di essere testimonial di AISM?
«È importante fare sentire la vicinanza alle persone che vivono la malattia. Voi di AISM siete fantastici, non lasciate nessuna persona sola con la sua malattia, mai. La supportate in tanti modi. E anche sostenere la ricerca è un modo essenziale per dare un supporto concreto alle persone con SM, per affrontare insieme problemi che sarebbero più grandi di loro, se non avessero la speranza e le risposte che la ricerca già offre. Stare in squadra con AISM dà una marcia in più a tutti».