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11/06/2021

Donna, discriminazione, disabilità: le tre “D” che il Progetto I˃dea vuole scindere

 

«Un giorno, al Centro antiviolenza dell’Associazione Lilith, a Latina, entra una donna con SM, accompagnata dalla Presidente della Sezione AISM. Ci sediamo e ascolto il suo racconto: il marito non le dà alcuna attenzione, usa i soldi per le proprie passioni e le sottrae persino la possibilità di comprarsi la carne e le proetine che la dietista le aveva consigliato con il neurologo per tenere un buon tono muscolare: “possono bastarti frutta e verdura”. Lei, a quel tempo, lavorava ancora, ma non poteva gestire neanche i soldi che guadagnava. A peggiorare le cose, il figlio nato da una precedente relazione del marito: non si fa problemi a chiamarla handicappata, non la rispetta, le parla con toni aggressivi. Dal profondo, emerge un senso di destino ineluttabile e una paura grande: lei ci aveva investito tanto nel voler essere moglie, nell’avere una famiglia. Ora non vuole essere lei a fare crollare tutto quel castello. Non può, abbatterebbe anche la propria storia, l’identità che si è costruita. Non sa nemmeno se vuole veramente andare via da una casa maltrattante».

 

Nel racconto di Lucia De Santis, che a quei tempi lavorava come psicologa proprio al Centro antiviolenza dell’Associazione Lilith e ora è consulente della Sezione AISM provinciale, incontrata proprio in quell’occasione, una storia che lascia intuire una realtà spesso nascosta: «Per una donna, oggi, è ancora difficile ammettere di vivere in un contesto familiare maltrattante, di essere oggetto costante anche di una violenza psicologica che, come la goccia delle grotte, le scava dentro un vuoto, una fragilità, un dolore muto. In certi casi, quel dolore si somma alla fatica di vivere con la sclerosi multipla e moltiplica i suoi effetti. In certi casi, soprattutto se una donna non è autonoma fisicamente e ha bisogno di essere accudita, se non può più lavorare e ha bisogno di chi guadagni anche per lei, se non può più guidare, o andare a fare la spesa da sola, o uscire da sola e vedere chi vuole, non vede vie d’uscita. Ma almeno è importante che sappia che in Italia c’è una rete intera di Centri anti-violenza cui può rivolgersi, essere accolta e ascoltata. Quella persona aveva soprattutto bisogno di questo, quando l’ho incontrata: avere un posto in cui sentirsi riconosciuta, in cui potersi sfogare, in cui sentire di non essere un’aliena a lamentarsi della disattenzione svalutante del marito, della violenza psicologica ed economica che subiva. Anche se non era pronta a cambiare vita e se sapeva di essere in balia di una malattia imprevedibile che non consente di fare progetti troppo a lunga scadenza, di essere sicuri di poter lavorare ed essere autonomi per tutta la vita, di potersela sempre cavare da soli».

 

Una rete preziosa, unica, con cui AISM ha aperto una vera e propria partnership di connessione all’interno del Progetto I˃DEA, Inclusione >Donne, Empowerment, Autodeterminazione, creato in partnership con Associazione Differenza Donna, Human Foundation e Fondazione ASPHI e dedicato a tutte le donne con sclerosi multipla che subiscono una doppia discriminazione prima come donne e poi come persone con disabilità. In questo modo, nell’incontro e nel dialogo di due reti, quella dei Centri anti-violenza e quella capillare dei volontari e degli sportelli AISM, già attivi in ogni territorio d’Italia, si “moltiplica” la capacità di recepire le istanze delle donne discriminate e si rafforza la capacità di fare fronte comune contro la discriminazione multipla.

 

 

«Anche noi di Differenza Donna – racconta Cristina Ercoli, del Consiglio direttivo dell’associazione –  siamo attive da anni nel territorio di Roma. La nostra associazione è nata nel 1989 con l’obiettivo di far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere. Fin dall’inizio l’Associazione ha avuto chiaro che la discriminazione, l’emarginazione e la sopraffazione nei confronti delle donne sono un fenomeno sociale diffuso, grave, complesso, che solo competenze specifiche possono combattere con efficacia. Io stessa, quando mi sono avvicinata al Centro, nel 1998, perché pensavo di essere una donna libera che poteva aiutare altre donne meno libere, mi sono accorta, al mio primo corso di formazione, che dovevo iniziare a mettere in discussione me stessa, la cultura che mi permeava in tutte le cellule, un abito mentale di stereotipi e false credenze e di banalizzazione della violenza. Ho presto capito che non solo non era accettabile la violenza maschile sulle donne, ma che era un problema che doveva essere della società tutta, che era riconducibile a un impatto anzitutto di una cultura antica, atavica, radicata».

 

Cristina Ercoli, nelle tante storie seguite in questi anni, ha incontrato a propria volta la discriminazione dolorosa di cui può essere oggetto una donna con sclerosi multipla: «Seguiamo – racconta – una signora costretta a letto a causa della propria patologia. Per l’aggravarsi della malattia, a un certo punto, ha interrotto la sua relazione di coppia ed è stata costretta a tornare a casa dei genitori. Lei, che da quella casa era scappata quando era giovanissima, perché suo padre è maltrattante. Da sempre era stata testimone di violenza agita dal padre sulla madre. Tornando a casa, si è trovata non solo a rivedere la violenza agita dal padre sulla madre, ma a diventare lei stessa una vittima diretta della violenza di quest’uomo. Ma da sola non poteva stare, non poteva badare a se stessa, ed è tornata nella prigione buia da cui era scappata. Fino a quando l’assistente domiciliare non ha raccolto il suo racconto e quello della madre, mettendole in contatto con noi. Per evitare i controlli dell’uomo sui telefoni, è stata la stessa assistente domiciliare a prestarsi con il proprio telefono per una serie di colloqui telefonici. La signora era molto rassegnata, non vedeva vie d’uscita. Pensava che il suo fosse un destino ineluttabile. Colloquio dopo colloquio, la paura atavica di non essere credute si è sciolta. Conoscendo quello che potevamo aiutarle a fare, le due signore si sono alleate e hanno finalmente respirato la possibilità di liberarsi da quella violenza. Non scappando o cercando scappatoie, ma denunciando la violenza. Siamo andate dai Carabinieri, coi quali collaboriamo da anni, e abbiamo sporto denuncia: hanno attivato immediatamente l’indagine preliminare e sappiamo che a breve il giudice delle indagini preliminari dovrebbe autorizzare l’emissione di un dispositivo che allontani l’uomo dall’abitazione familiare».

 

La strada per la libertà è lunga, non sempre percorribile fino in fondo. Chiede connessioni, tempo, coraggio e capacità di continuare ad allargare il cerchio delle risposte, delle organizzazioni, delle persone pronte ad agire in sinergia. Come evidenzia Francesca Innocenti, assistente sociale dell’Associazione Lilith «anche noi, dopo aver aperto a Latina nel 1991 uno dei primi centri antiviolenza, col tempo abbiamo capito che non tutte le donne che si rivolgevano alla nostra associazione potevano restare a vivere nella casa familiare. E quindi nel 2003 abbiamo aperto la Casa Rifugio Emily per donne e minori vittime di violenza intrafamiliare. Dal 2003 a oggi in questa struttura abbiamo ospitato più di 200 donne e più di 200 bambini e bambine per un percorso di uscita dalla violenza. E poi nel 2011 abbiamo aperto due strutture di semi-autonomia, che danno la possibilità, quando è finita la temporanea emergenza, di continuare un percorso di uscita dalla violenza. Io stessa, entrata in associazione facendo il servizio civile quando studiavo all’Università per diventare assistente sociale, oggi sono la coordinatrice dei progetti di inserimento lavorativo e socio-lavorativo delle donne che sono passate dai nostri servizi. Senza lavoro è difficile avere un’autonomia reale, per sé e per i figli. Il lavoro è uno strumento decisivo di dignità e lotta alla violenza».

 

Sono sempre gli incontri che cambiano le storie, per chi è sostenuto ma anche per chi si impegna per supportare: «è stato proprio l’incontro con una signora con SM che saliva a fatica le scale della nostra precedente sede, senza ascensore – aggiunge Francesca Innocenti - a farci scegliere di cercare una sede priva di barriere architettoniche. Nessuna donna deve restare esclusa dalla possibilità di cercare supporto e percorsi per uscire dalla violenza domestica».

 

 

Infine, come ricordano all’unisono Cristina Ercoli, Francesca Innocenti e Lucia De Santis, è necessario un lavoro costante a livello educativo su tutta la popolazione, perché il fenomeno violenza sulle donne ha un forte radicamento culturale, prima di tutto. «Andiamo da anni – spiegano - in tutte le scuole di ordine e grado, collaboriamo con l’Università, non smettiamo di proporre incontri pubblici. Se diamo ai ragazzi e alle ragazze strumenti per capire subito se vivono in un contesto maltrattante, possono cominciare prima a cercare di liberarsene. E il danno per loro e per l’intera società può essere contenuto».

 

Una lunga strada, complessa, irta di ostacoli, parte dalla fatica delle stesse donne con disabilità a riconoscere quello che sentono e stanno vivendo per arrivare al lungo lavoro di scardinamento di una cultura secondo cui “il padre è un padrone libero di fare quello che vuole” e “i panni sporchi si lavano in casa”, aggiungendo controllo e isolamento alla violenza.

 

 

AISM, la Rete RED, il progetto I˃DEA

In questa strada lunga, dentro la rete delle associazioni italiane impegnate sul campo, si sta muovendo anche AISM, come spiega Marcella Mazzoli (Direttore Gestione Sviluppo Rete Territoriale AISM, responsabile del progetto I>DEA): «Tanto nella prevenzione, nella condivisione di una consapevolezza diffusa sugli stereotipi sia di genere che sulla disabilità, nella costruzione di una cultura attenta a percepire se c’è maltrattamento e violenza, a livello psicologico, fisico, economico, come soprattutto nella rete di supporto per dare sostanza all’uscita dalla violenza, che nel caso della donna con disabilità deve prevedere garanzie di funzionamento a monte che le facilitino la scelta di cambiamento e la rassicurino, le Associazioni come AISM possono lavorare tanto. E noi lo stiamo facendo, insieme alla rete RED , (Rete Empowerment Donna), un gruppo di 100 donne volontarie dell’Associazione, con e senza SM, impegnate a essere in tutti i territori “antenne” e “attiviste”, grazie al progetto I>DEA, per sostenere altre donne in specifici percorsi di sostegno ed empowerment in casi di discriminazione e violenza». Il progetto è cofinanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche Sociali – DG Terzo Settore e RSI Fondo per il finanziamento di progetti e attività di interesse generale nel terzo settore - art. 72 del D.Lgs 117/2017 - Avviso n. 1/2018.

 

Qui il programma e tutte le informazioni sul Progetto i>DEA.

 

 

 

Il quadro

Secondo gli ultimi dati diffusi dall’ISTAT nel 2020, anno della pandemia, le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%). Il boom di chiamate si è avuto a partire da fine marzo, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2 rispetto a maggio 2019), ma soprattutto in occasione del 25 novembre, la giornata in cui si ricorda la violenza contro le donne. La violenza segnalata quando si chiama il 1522 è soprattutto fisica (47,9% dei casi), ma quasi tutte le donne hanno subito più di una forma di violenza e tra queste emerge quella psicologica (50,5%).

Il fatto che l’anno della pandemia abbia fatto ‘esplodere’ il numero delle denunce contro la violenza di genere. Un segnale allarmante, da un certo punto di vista e importante da un altro, perché potrebbe segnalare che è venuto il tempo in cui emerge un fenomeno spesso sommerso. Si combatte meglio ciò che si conosce.

 

 

Donne con disabilità e violenza: una fotografia da FISH

Per una fotografia del fenomeno della violenza subita dalle donne con disabilità ricordiamo VERA (Violence, Emergence, Recognition and Awarness), l’iniziativa di FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, di cui AISM è parte attiva, e  di Differenza Donna, che a fine 2019 ha indagato con un’apposita ricerca il fenomeno della violenza sulle donne con disabilità.

Secondo questa indagine, tra le 519 donne intervistate ben 339, pari al 65,3% del totale, hanno dichiarato di aver subito nel corso della propria vita almeno una forma di violenza - fisica, sessuale, psicologica o economica.

La forma di violenza più ricorrente è proprio l’insulto, la svalutazione e l’umiliazione che la metà delle donne intervistate ha subito almeno una volta nella propria vita (51,8% delle rispondenti).

Segue la violenza fisica che è stata subita dal 23,7% delle donne intervistate e la molestia sessuale (23,3%). Sempre nell’ambito della violenza psicologica il 22,5% delle donne è stata ricattata o le è stato impedito di vedere persone care.

Aggregando le risposte per tipologia di violenza subita, emerge come la forma di violenza più ricorrente sia quella psicologica (presente nel 53,9% dei casi), spesso sottovalutata rispetto alla violenza fisica (presente nel 23,7% dei casi) che appare invece come il pericolo più immediato ed evidente.