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02/02/2015

Dalla parte della sposa

SM Italia 6/2014

Un film presentato all'ultimo Festival di Venezia racconta il finto matrimonio messo in scena da alcuni amici per accompagnare 5 profughi da Milano a Staccolma. L'intervista al regista Gabriele Del Grande su SM Italia 6

 

«La soluzione non è mai individuale. C’è sempre qualcosa di collettivo, qualcosa che appartiene a tutti noi. O viviamo tutti bene, o è come se non vivessimo. Noi siamo uguali, siamo uguali». Sul molo di Copenaghen, una giovane palestinese vestita da sposa confida il motivo per cui sta rischiando il carcere pur di essere lì in quel momento, ‘complice’ di un gruppo di amici siriano-palestinesi in viaggio senza documenti verso la Svezia.

 

È una delle scene centrali del film Io sto con la sposa. Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2014, racconta di un gruppo di amici che viaggia per 4 giorni e 3.000 chilometri, per accompagnare da Milano a Stoccolma cinque persone sbarcate a Lampedusa, in fuga dalla guerra di Siria. Non è una sceneggiatura, ma una storia ‘dannatamente vera’, dove non ci sono attori ma persone che vivono seriamente la propria vicenda. Per superare le frontiere senza essere fermati a eventuali posti di blocco, consapevoli tutti che gli accompagnatori potevano essere arrestati in flagranza di reato per ‘favoreggiamento all’immigrazione clandestina’, i protagonisti hanno inscenato un finto matrimonio. «Chi fermerebbe mai una sposa per controllarle i documenti?», si erano detti. Incredibilmente, ha funzionato. Abbiamo ripercorso le emozioni e i significati di questa vicenda con uno dei registi, Gabriele Del Grande. 32 anni, giornalista e scrittore, che è stato diverse volte in Siria.

 

Come vi è venuta l’idea di un film, con tanto di sposa e corteo nuziale, per affrontare il dramma dei profughi siriani e palestinesi?
«Un giorno sto prendendo un caffè alla Stazione di Milano con il mio amico Khaled, poeta originario di Damasco, quando si avvicina un giovane palestinese-siriano e ci domanda spaesato: "Da che binario parte il treno per Stoccolma?". È Abdalla. Ci spiega che ha trent’anni e che stava finendo l’Università quando è dovuto scappare dalla guerra. Due settimane prima di incontrare noi ha visto morire in mare 250 dei passeggeri della barca su cui aveva attraversato il Mediterraneo. Lo invitiamo a casa nostra, per quella sera. Nel frattempo ci raggiungono anche Alaa con suo figlio Manar, e poi Abu e Umm Nawwar, che sono sposati da 28 anni e hanno tre figli in Libia».

 

E poi?
«Volevano andare in Svezia, dove avrebbero potuto trovare asilo politico e avere lo strumento legale per potersi ricongiungere con le proprie famiglie, salvandole dalla guerra. Ma le leggi vietano di muoversi liberamente in Europa a una persona priva di visto sul passaporto. Non a caso proprio a Milano, centro nevralgico di passaggio, è possibile intercettare trafficanti che per mille euro ti promettono di portarti a Stoccolma, finendo molto spesso per abbandonarti a qualche posto di blocco, o magari lasciandoti a Lugano e spacciandola per una città svedese. E allora, insieme ad Antonio Augugliaro, amico e regista, io e Khaled abbiamo scelto di accompagnarli in Svezia, inventandoci un corteo nuziale con tanti amici vestiti a festa per non farli sembrare immigrati in fuga. E insieme a loro abbiamo scelto di farne un film, un documento da fare conoscere a tutti quelli che non sanno. In pochi giorni ci siamo procurati macchina da presa, attrezzature, vestiti da matrimonio. Abbiamo coinvolto amici italiani e siriani regolarmente presenti a Milano e siamo partiti».

 

L'intervista è stata pubblicata su SM Italia 6/2014, la puoi sfogliare online o scaricaricare in versione pdf