Roberto Furlan, Group Leader dell'Unità di Neuroimmunologia Clinica e Direttore dell'Istituto di Neurologia Sperimentale dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, è, come si definisce lui stesso, un «compagno di viaggio» delle persone con SM, sin da quando scelse di vivere la sua esperienza di «obiettore di coscienza» al fianco delle persone con SM presso la Sezione AISM di Milano.
Oggi Furlan è uno dei ricercatori di punta sulla sclerosi multipla e Presidente dell’AINI, Associazione Italiana di Neuro Immunologia e non ha mai perso, nel fare il medico e il ricercatore, il legame con le emozioni profonde delle persone con SM, con quello che riescono a dire e con quello che rimane indicibile.
Davanti ai dieci ritratti della Mostra Portraits torna tutto a galla: «mi hanno molto colpito – racconta -. Un’idea notevole, perché tante volte le persone con SM hanno confidato anche a me la frustrazione di non riuscire a condividere cosa sono e come pesano nella vita i cosiddetti sintomi invisibili, persino rispetto ai propri cari e familiari. A volte le persone se ne escono con metafore di guerra e lotta, dicono che “devono combattere” con la fatica, come se abbandonarsi a un sintomo invisibile come la fatica fosse un segno di resa, come se fare la guerra alla fatica avesse un valore anche morale, non solo pratico. Spesso le persone si arrendono, non ci provano nemmeno più a spiegare cosa vivono, per la paura di non essere credute. Trovare un modo ‘artistico’ come quello di Portraits, per rendere visibili i sintomi invisibili, è una trovata straordinariamente centrata, che risponde al bisogno forte delle persone con SM di potere condividere quello che vivono sentendosi credute».
Quali immagini l’hanno colpita in particolare, dottor Furlan?
I chiodi nella pelle sono un’immagine potente, come il fuoco nelle gambe o in testa. E, ancora, le corde che legano la lingua. Non sono né vere né verosimili, ma sono una comunicazione potente. Così si riesce a dire l’indicibile, con la forza di un’immagine. Se poi, come nello spirito dell’iniziativa, sarà possibile per altre persone mandare una propria foto e una descrizione del sintomo che vivono per essere a loro volta elaborate dall’intelligenza artificiale che ha creato questi “ritratti”, ora in mostra a Roma e Milano, l’iniziativa diventerà veramente terapeutica, nella misura in cui riuscirà a rendere visibile il sintomo invisibile di cui le persone soffrono.
(foto del ritratto citato)
Tra i sintomi invisibili a suo avviso qual è il più complicato da rendere anche per un’intelligenza artificiale che ascolti cosa dice la persona e ne elabori le informazioni ricevute?
Penso al senso di fatica primaria, cronica. Non è una stanchezza fisica, quella che si prova: se mostriamo le membra pesanti, simili a panettoni di piombo, non abbiamo ancora reso fino in fondo il sintomo. Assomiglia alla sensazione che proviamo tutti quando abbiamo un’influenza, quando sperimentiamo deflessione del tono dell’umore e senso di stanchezza che generano il bisogno di stare sdraiati a letto isolati da tutti: quella sensazione è frutto di mediatori solubili presenti nel sangue con cui comunichiamo al cervello che abbiamo un’infiammazione in corso. Ecco: è come se Le persone con SM avessero un’influenza cronica e quei mediatori di informazione li hanno direttamente dentro il sistema nervoso. Vallo a spiegare, però.
Questi ritratti nascono dall’intelligenza artificiale di tipo generativo. Che tipo di intelligenza artificiale (AI) si usa in medicina e in ricerca?
In medicina e nella ricerca da almeno dieci anni viene usato un tipo di intelligenza artificiale che viene definito “classificatorio”. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’evoluzione vertiginosa di questo tipo di intelligenza sia a livello concettuale che nella potenza di calcolo degli algoritmi utilizzati. Se parlavamo già di intelligenza artificiale quando furono messi a punto i primi algoritmi che erano in grado di leggere un elettrocardiogramma, oggi abbiamo intelligenze artificiali in grado di leggere immagini molto più complesse come quelle di una risonanza magnetica.
Cosa fate, esattamente, con l’intelligenza artificiale?
Oggi abbiamo una capacità enorme di generare dati scientifici. Abbiamo i cosiddetti “big data” – pensiamo solo ai miliardi di dati che possiamo ottenere sequenziando tutti i trascritti genetici di ogni singola cellula - e possiamo aggregare dati sulla stessa persona da tantissime fonti diverse. Le azioni di analisi profonda di questa mole infinita di dati (“deep learning”) e l’auto apprendimento continuo per migliorare le conclusioni ottenute dall’analisi (“machine learning”), rese possibili dagli algoritmi matematici che governano l’intelligenza artificiale, sono diventati strumenti imprescindibili nella ricerca. Penso di non aver scritto negli ultimi 3-4 anni un progetto che non contenesse l’analisi dei risultati da parte dell’intelligenza artificiale.
Perché lo fate, che guadagno ne ha la ricerca?
L’AI permette di fare associazioni che sino a poco tempo fa erano impossibili anche ai più sofisticati sistemi statistici disponibili. Permette di individuare schemi interpretativi dei dati della ricerca che altrimenti rimarrebbero inaccessibili. Possiamo incrociare, come nel progetto “Barcoding MS” lanciato dalla Fondazione Italiana Sclerosi Multipla, i dati clinici del Registro Italiano SM su circa 70.000 persone, i dati di risonanza del Registro INNI, i dati di genetica, i dati di immunologia e ottenerne schemi di interpretazione che il più raffinato degli statistici non sarebbe in grado di ottenere, correlazioni che potranno sempre più consentire una vera e propria medicina personalizzata.
Ci sono anche resistenze e riflessioni critiche sull’uso dell’AI in ricerca e medicina?
In ambito medico, come in tutti gli ambiti, molti guardano con diffidenza e timore a questa innovazione. Il timore diffuso, nel mondo in generale, è che a un certo punto, non tanto lontano, molte professionalità anche qualificate scompariranno e verranno sostituite dall’intelligenza artificiale. Non andrà così. Credo che servirà sempre il controllo dell’essere umano. Sarà sempre un professionista ‘umano’ a doversi assumere la responsabilità di inserire dati corretti negli algoritmi dell’intelligenza artificiale e di assumerne gli esiti per erogare una diagnosi e proporre una terapia. E lo farà sempre ascoltando prima di tutto la persona cui deve comunicare diagnosi e terapia.
Può fare un esempio, fuori del campo della SM, di un uso clinico delle analisi dell’intelligenza artificiale su dati medici?
All’IRCCS dell’Ospedale San Raffaele, i colleghi hanno gestito uno dei cinque progetti mondiali di uso dell’intelligenza artificiale promossi da Google testando l’uso dell’AI in tempi di Covid e di sovraffollamento oltre ogni limite degli Ospedali: l’algoritmo costruito coi medici responsabili del progetto consentiva, in quel momento di tragica emergenza, di decidere in pochi minuti e tramite l’inserimento di pochi dati selezionati se un paziente arrivato al Pronto Soccorso con tampone positivo al Covid dovesse essere ricoverato o potesse essere rimandato in isolamento al proprio domicilio. È un esempio concreto degli strumenti che a livello medico e clinico può dare l’intelligenza artificiale. Ma L’AI è solo uno strumento di analisi dei dati straordinariamente più raffinato di quelli avuti sinora, non dobbiamo averne né un’immagine magica né un rifiuto aprioristico. Nel nostro campo, sarà sempre un medico a decidere il da farsi, usando un supporto che prima non c’era. Nemmeno l’intelligenza artificiale più evoluta può fare a meno della “stupida intelligenza naturale” che la inserisca e legga nel giusto contesto.
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