Dal 3 al 16 maggio 2013 a Milano la mostra fotografica Under Pressure racconta la vita delle persone con SM in 12 paesi europei. Vi proponiamo l'intervista a Carlos Spottorno, uno dei 5 fotografi del progetto, che verrà pubblicata sulla rivista SM Italia 3/2013
Carlos Spottorno è fotografo e video-documentarista di fama internazionale. Ha girato il mondo, incontrato e ritratto decine di storie. Nel 2002 ha vinto il prestigioso «World Press Photo» ritraendo sotto un cielo livido la tuta bianca imbrattata di petrolio, lo sguardo basso e sconsolato di un volontario impegnato a ripulire la costa dal disastro ecologico prodotto dalla rottura di una petroliera. Però, quando gli chiedo di estrarre dalla memoria un’immagine potente di quello che la sua fotografia cerca di raccontare, la prima che Carlos ripesca è quella di Anja, una giovane donna polacca con la sclerosi multipla. Carlos l’ha incontrata per Under Pressure, il reportage voluto dalla European Multiple Sclerosis Platform, con l’adesione di AISM, per raccontare «in presa diretta» l’esperienza reale delle persone con SM in dodici diverse nazioni d’Europa. Perché si è creata una sintonia così profonda tra Carlos e la vita delle persone con SM? Lo scopriremo insieme alla fine di questa intervista. Intanto, raccogliamo gli indizi necessari.
Le immagini di Under Pressure raccontano di storie personali e originali vissute in paesi d’Europa molto diversi. C’è un tratto che le accomuna?
«Le persone con sclerosi multipla, in tutti e 12 i Paesi che hanno partecipato all’iniziativa, hanno bisogno di pensare tanto su quello che succede loro. Devono affrontare una situazione complicata con grande investimento psicologico. Hanno tutti un atteggiamento riflessivo, anche intellettuale nei confronti della propria condizione. E una forza interiore che si fa percepire».
Dunque non è vero che l’essenziale è invisibile agli occhi, come voleva il Piccolo Principe?
«Prima di cominciare questo reportage per me la sclerosi multipla non esisteva. Ero completamente ignorante. Probabilmente è una situazione piuttosto diffusa: la pubblicazione di“Under Pressure” è stata voluta anche per dare visibilità a ciò che molti nel mondo non saprebbero scorgere».
E ci siete riusciti?
«Ci aiutiamo con le video-interviste. La SM impatta molto sulla capacità di movimento e, dunque, se la fotografia si mette in moto e diventa documentario è anche più eloquente».
Per esempio, Martina
«Martina è una delle protagoniste italiane di “Under Pressure”. Il suovideo finisce mentre dice: “Una cosa mi manca proprio:una persona accanto”. Poi la si vede mentre cammina, da sola, in salita, coi bastoni, su una strada bagnata, con mucchi di neve ai lati».
Dove porterà quella sua strada di cui mostri l’andare ma non l’arrivo?
«Martina è una ragazza intelligente, bella, capace. Spero che trovi qualcuno. E secondo me lo troverà. L’ho avuta vicino, ho parlato molto con lei, sono stato in casa sua per qualche giorno, ventiquattro ore su ventiquattro. E mi è sembrata una persona con cui si può vivere molto bene. Immagino proprio che sarà fortunata anche nell’amore come lo è nel lavoro. E mi auguro che lo stesso desiderio si realizzi per tanti giovani con SM cui non manca nulla per poter essere felici e per rendere felice un compagno o una compagna di vita».
Perché per fotografare una persona con SM avete sentito la necessità di conviverci per alcuni giorni?
«Non si può fare altrimenti. Prima devo parlare con la persona che sto per fotografare: ‘Starò qui a casa tua, tutto il tempo. Ti riprenderò mentre ti lavi i denti, mentre vai a letto, mentre mangi’. È essenziale che lei sia d’accordo. Che voglia essere fotografata. Che abbia fiducia. Che si senta libera di essere se stessa con me intorno. Solo così riusciamo insieme a dar vita ad immagini che hanno senso e significato».
Si può essere davvero liberi dalla sclerosi multipla? Come?
«In Germania ho incontrato Amadou Toure, architetto che non toglie da casa sua la scala interna di inizio ‘900 e va a visitare un museo accessibile per osservare incantato la statua di legno di un uomo libero di cavalcare. Nella SM la libertà è molto legata al tuo modo di essere persona, alla tua capacità di trovare modi alternativi di fare le stesse cose che agli altri vengono spontaneamente. Contano molto anche le persone con cui vivi, chi fa coppia con te, la tua famiglia, gli amici. E poi la libertà ha molto a che farecon il contesto sociale in cui vivi. In Bielorussia sono probabilmente meno liberi che in Germania o in Italia.Non perché le persone siano intimamente meno libere, ma perché il contesto è meno favorevole».
Non c’è libertà senza politica, cioè senza la propria città e la sua cultura civile
«È quello che raccontano le immagini. Un conto è avere la SM in un posto dove il contesto sociale e le politiche non consentono integrazione. Diverso è avere la SM in una società inclusiva che permette un buon accesso alla diagnosi, alle terapie, alle medicine, mette in atto una protezione per il lavoro e un’attenzione reale alle barriere architettoniche».
Sei stato più volte a vivere e lavorare in Italia, per esempio a Palermo. Cosa ti stupisce, ancora oggi, del nostro Paese?
«Le stesse cose che mi colpiscono della Spagna, della Grecia, del Portogallo. Siamo stati la culla dell’Europa e ora sembra che siamo il cuore del problema. Mi colpisce che un po’ tutti, a poco a poco, abbiamo degradato l’ambiente in cui viviamo. Quando ho conosciuto Palermo sono rimasto stupito dalla ricchezza architettonica e artistica che si combina senza soluzione di continuità con ruderi, costruzioni distrutte e abbandonate. I palazzi antichi che crollano a pezzi e quelli costruiti negli anni ’70 sono orrendi. Mi colpisce questo paradosso della ricchezza culturale trasformata in attuale povertà di cultura. Il bello naturale è il nostro più grande tesoro, dobbiamo lavorare seriamente per cercare di non dilapidarlo».
A proposito di tesori, uno dei tuoi libri di reportage è dedicato ai «cercatori di storia dell’Egitto». Perché hai cercato proprio loro?
«Questi lavoratori egiziani sono del tutto anonimi. Ma sono loro che trovano le rarità archeologiche nascoste da migliaia di anni. Sono loro che sanno esattamente dove stanno.Le toccano per la prima volta, ma restano sconosciuti e senza gloria. Il mondo funziona così. Allora serve qualcuno che dica al mondo: “Fate attenzione, qui c’è gente non famosa che lavora sulla memoria, che ci restituisce la nostra storia”.
Perché allora stampa, film e televisione si concentrano sui belli e famosi?
«Abbiamo bisogno di simboli, magari di eroi, spesso di persone famose che possano diventare un modello in cui identificare le nostre parti migliori. O un argomento del nostro piccolo gossip quotidiano. Ma questo non vuol dire che tutti noi, gli ‘anonimi’ della storia, non significhiamo nulla e non lasciamo nessuna traccia. Ognuno è un po’ l’eroe della propria vita. Tutti possiamo sempre scoprire di essere parte di una storia più grande di noi».
Quale foto, anche non tua, racconta con la massima potenza gli anni della nostra storia attuale?
«Mi viene in mente una fotografia di Anthony Suau,vincitrice del Word Press Photo 2009. Riprende un poliziotto dentro una casa che cerca qualcuno. Sembra un’immagine di guerra. In realtà il poliziotto sta cercando gli inquilini di quella casa per sfrattarli. Non avevano più pagato il mutuo. In Spagna ogni mese ci sono persone che si buttano dalla finestra per porre fine alle loro insolvenze.I nostri sono gli anni dello sfratto, da noi stessi, dalle nostre certezze».
Tra le tue foto, invece, di quale vai più fiero?
«In “China Western” riprendo un ragazzo con la faccia da bambino che vende giocattoli sulla neve. Racchiude un paradosso straordinario: un bambino non deve vendere i giocattoli, e stare al freddo, da solo, con i soldi in mano. Un bimbo è fatto per giocare spensierato.Questo è il mio modo di pensare la fotografia. Cerco sempre di rappresentare un paradosso che in modo semplice e diretto racconti un universo».
Volevi fare il pittore, sei diventato art director in agenzia pubblicitaria e, alla fine, fotografo da ”Word Press Photo”. Qual è l’anima vitale di questo percorso?
«All’inizio studiavo le belle arti perché volevo fortemente diventare pittore. Poco tempo dopo aver finito gli studi ho capito che non era per me. Era un lavoro molto solitario, che chiede una sostanziale concentrazione su se stessi. Non mi sembrava così interessante. Avevo bisogno di avere un lavoro più attivo, con più gente intorno a me. Perciò, quando avevo 23-24 anni, ho cominciato a lavorare come art director in una grande compagnia pubblicitaria. Volevo un lavoro con molta adrenalina».
Non ti bastava neppure quell’adrenalina?
«Dopo 3 o 4 anni ho capito che neppure quel lavoro mi appassionava fino in fondo. I contenuti della pubblicità, per quanto luccicanti, mi sembravano futili. Non riuscivo a investirci tutte le energie. Ho cominciato così ad essere attratto dalla fotografia documentale. Più di tutto mi coinvolgono le vicende reali di persone vere».
Verità per verità: conti più sul lavoro tenace e quotidiano o su intuizione e ispirazione?
«Io sono molto più per il lavoro quotidiano. Forse anche perché ho quasi 42 anni, un’età in cui il colpo di genio non colpisce spesso. Le cose vengono dopo un lavoro profondo, serio, con molto pensiero, molto studio. Seguo un approccio basato sullo studio, sulla comprensione del soggetto».
Ecco, siamo tornati al punto di partenza. Carlos è stato colpito con forza dalle persone con SM di cui prima ignorava l’esistenza perché, come lui,ragionano molto su se stesse ehanno sempre bisogno di continuare a interrogarsi e ridiscutere il senso del loro andare. «Per questo hai trovato una sintonia profonda con chi affronta la sclerosi multipla ogni giorno – mi lascio sfuggire -. Anche tu vivi allo stesso modo». E lui: «Non ci avevo pensato. Ma è proprio così».
Giuseppe Gazzola