La moglie del giuslavorista racconta come ha deciso di continuare l'opera di suo marito, tramite una Fondazione a lui intitolata. La nostra intervista per Sm Italia
«Vado in via Valdonica», dico al tassista che mi raccoglie alla Stazione di Bologna. E lui, subito: «È la via dove hanno ucciso Marco Biagi».
È proprio lì, nel cuore del quartiere ebraico, che sto andando. Sono passati dieci anni da quel 19 marzo 2002, quando Biagi fu trucidato sotto casa dalle Nuove Brigate Rosse. Mi aspetta Marina Orlandi, la moglie. Sul citofono di casa i due nomi sono ancora uniti, come nella vita. Marina, docente universitario di fisiologia, è una donna intraprendente, che ha saputo andare oltre il limite di una morte tanto tragica quanto annunciata.
«Subito quella sera – racconta Marina con la voce incrinata -, dopo averlo visto riverso sul portico sotto il portone di casa, ho avuto un moto di ribellione terribile, pensando che non volevo assolutamente darla vinta ai suoi assassini. E dissi: «Voglio dare vita a una Fondazione in suo nome». Erano passate due o tre ore dalla sua morte. Potrei sembrare un mostro, ma è ciò che è accaduto. Marco è morto perché aveva degli ideali, perché voleva migliorare la vita di altri uomini. È stato ucciso da assassini senza volto. E noi non dovevamo cedere».
Nasce anche così un mondo libero. Non solo libero dalla sclerosi multipla, ma da ogni limite che sembrerebbe insuperabile. Un mondo libero dalla rassegnazione, dalla violenza, dall’uccisione del diritto. Cosa faremmo noi se, arrivati sulla soglia dei 50 anni avendo figli ancora piccoli, ci trovassimo a rischiare la vita per il bene collettivo? Ci terremmo la vita, la moglie, i figli o continueremmo a perseguire l’ideale di un mondo più libero e giusto per tutti? E se fosse nostro marito o nostra moglie a rischiare? Cosa gli diremmo?
Lei, Marina, come parlava con Marco delle minacce di morte, delle scelte da fare?
«La sera prima che fosse ucciso, lo avevo portato per l’ennesima volta a discutere sul fatto che fosse in pericolo e senza scorta. Una situazione ignorata da tutti: sembravamo essere le uniche persone al mondo preoccupate dal rischio che lui, consulente del ministero per la riforma del lavoro, fosse stato minacciato di morte. I nostri appelli cadevano nel vuoto».
E lui?
«Lui mi ha risposto con una domanda. “Cosa devo fare? – mi ha detto -. Devo lasciare tutto ora che mi trovo a essere nel posto giusto al momento giusto per potere fare qualcosa per persone che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro e ne avranno sempre più, vista la direzione in cui sta andando il mercato?»
Poi, avete continuato?
«Ha continuato lui. “Lo faccio – mi ha detto - per i ragazzi come i nostri figli, che faranno sempre più fatica a trovare un lavoro a tempo indeterminato e dovranno cambiarne moltissimi. Per le donne come te. Per quelli come il nostro amico, che ha perso il lavoro a 40 anni e non riesce a ritrovarne un altro. E per le persone come la nostra amica, che ha disabilità fisica. Tu sai che fatica è per lei trovare lavoro e cosa potrebbe voler dire se ci riuscisse. Devo lasciare tutto questo incompiuto?”»
Marco Biagi era nato il 24 novembre del 1950. Marina Orlandi ha due anni meno di lui. «Ci siamo conosciuti nel tempo dell’Università, durante un viaggio in Africa organizzato da don Contiero, il cappellano dell’Università. Da allora non ci siamo più lasciati», ricorda Marina. Per saperne di più sulla Fondazione Marco Biagi e sull’eredità del giuslavorista ucciso il 19 marzo 2002 dalle BR si può consultare il sito.
Giuseppe Gazzola
Questa intervista è disponibile in versione completa sulla rivista Sm Italia 2/2012, bimestrale d'informazione dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla.