AISM e la sua Fondazione, in collaborazione con l'Università di Genova, ha sviluppato una app per eseguire a domicilio esercizi di riabilitazione cognitiva per la sclerosi multipla. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of NeuroEngineering and Rehabilitation. Ce ne parla il ricercatore Ludovico Pedullà
L’Università di Genova e l’Area Ricerca di AISM e la sua Fondazione stanno consolidando una collaborazione per portare avanti alcune ricerche molto importanti per le persone con SM. Uno studio, recentemente pubblicato su Journal of NeuroEngineering and Rehabilitation, ha affrontato il tema dei disturbi cognitivi dovuti alla sclerosi multipla, e l’importanza della riabilitazione per la gestione di questi sintomi che colpiscono fino al 60% delle persone con sclerosi multipla. Ludovico Pedullà, ricercatore dell’Università di Genova, ha risposto alle nostre domande.
Come questa vostra ricerca potrà migliorare la vita delle persone che hanno la sclerosi multipla?
«Al di là del singolo studio, conviene ricordare che la letteratura scientifica dimostra come il 50-60% delle persone con SM può avere problemi di tipo cognitivo sin dalle fasi di esordio della malattia, e non solamente in fase avanzata come si pensava fino a qualche tempo fa. All’inizio si tratta per lo più di disturbi lievi, che spesso non vanno a influire più di tanto sulla vita quotidiana. Tante persone, trattandosi in maggioranza di giovani, continuano a fare la loro vita, vanno a lavorare, fanno tutto come prima, però con un carico cognitivo un po’ più pesante rispetto alle persone che non hanno la SM. Dunque, prima si inizia a tenere allenate le capacità cognitive e meglio è».
Esiste una riabilitazione cognitiva efficace e specifica per le diverse e personalissime situazioni di sclerosi multipla?
«Uno degli esiti interessanti del nostro lavoro, in prospettiva, consiste proprio nell’avere messo in evidenza come sia possibile e maggiormente efficace personalizzare il trattamento. Nel nostro caso, avendo utilizzato una applicazione informatizzata, abbiamo potuto mettere a punto un training cognitivo che si adattasse in tempo reale alle risposte di ogni singolo partecipante, aumentando o diminuendo la difficoltà degli esercizi proposti in modo da chiedere sempre il massimo che ognuno poteva dare, non di più, non di meno. E funziona».
Con il training della vostra ricerca avete lavorato in particolare sulla ‘memoria di lavoro’: di cosa si tratta? Quale utilizzo quotidiano ne facciamo?
«Si tratta di una particolare funzione cognitiva che richiede capacità di attenzione, velocità di elaborazione delle informazioni che riceviamo e capacità di ricordarle per brevi periodi. Ci permette di ricordare determinate informazioni per quel breve periodo necessario a compiere una certa azione e a stare al passo con i ritmi della vita quotidiana: se dobbiamo ricordarci un indirizzo cui recarci, se dobbiamo comporre un numero di telefono letto in agenda, ricordare una piccola lista della spesa o il titolo di un libro da acquistare, usiamo sempre la memoria di lavoro».
Cosa dice al riguardo la letteratura scientifica?
«È ricca di studi che dimostrano come tutte le persone sane che fanno un training sulla memoria di lavoro aumentano la propria capacità. La risonanza magnetica, poi, rivela che ci sono alcune aree cerebrali che lavorano di più e meglio dopo il training; alcuni parametri di risonanza magnetica avanzata cambiano dopo il training. Dunque, allenare la memoria di lavoro serve a tutti, nella vita di ogni giorno».
Ci può raccontare un esempio, un esercizio e il modo con cui si adatta alle performance di ogni singolo partecipante?
«Il primo set di esercizi riguardava la memoria visuo-spaziale: bisognava osservare una sequenza composta da un certo numero di pallini che, nel video, andavano progressivamente a collocarsi su una griglia di nove caselle. Era richiesto di ricordare e subito dopo riprodurre correttamente la stessa sequenza. Nel gruppo del training adattivo, il numero di pallini da ricollocare cresceva progressivamente, così come la velocità con cui comparivano».
In che tempi e modi sono stati eseguiti gli esercizi da voi previsti?
«Gli esercizi potevano essere eseguiti a casa, al mattino, nella pausa di lavoro, o alla sera: l’importante è che fossero svolti in condizioni di tranquillità, evitando interferenze distraenti come quelle di una televisione o di una radio accesa durante l’esercizio. Hanno risposto tutti molto bene e in entrambi i gruppi è stato svolto circa il 90% degli esercizi predisposti».
Come avete valutato i miglioramenti prodotti da COGNITRAcK?
«Prima e dopo il training sono stati somministrati a tutti i partecipanti 10 test di valutazione cognitiva: il gruppo che ha seguito il training adattivo è migliorato più dell’altro gruppo in 6 test su 10; negli altri 4 test entrambi i gruppi sono migliorati in modo analogo. Per confermare i miglioramenti a distanza di sei mesi abbiamo somministrato solo due dei dieci test inizialmente utilizzati. È vero che non sappiamo cosa hanno fatto queste persone in quei 6 mesi: potrebbero anche avere continuato a tenersi in esercizio con esercizi analoghi, svolti nella vita lavorativa o nel tempo libero. Però il fatto che dopo 6 mesi si sia riscontrato il mantenimento dei risultati, è comunque positivo».
Perché avete voluto confrontare due gruppi entrambi impegnati nello stesso training e per la stessa durata, anche se con difficoltà differenti?
«In questo modo abbiamo cercato di avvicinare la metodologia della ricerca in riabilitazione a quella usata a livello clinico per l’individuazione di nuovi farmaci, dove si utilizza un gruppo di controllo cui viene somministrato un placebo o un composto già noto per la sua efficacia o sicurezza. Nel nostro caso, sarebbe stato troppo facile ma anche abbastanza inutile dimostrare che il gruppo riabilitato cognitivamente migliorava più di un gruppo che non avesse eseguito alcun esercizio. Avere dimostrato, nel nostro caso, la maggiore efficacia di un training personalizzato, che si adatta a ciascun soggetto, potrà servire come impianto metodologico di riferimento anche per future ricerche».
Cosa significa, però, il fatto che migliorano anche quelli che svolgono il training al livello non adattivo, cioè al minimo di difficoltà che rimane sempre stabile?
«È la conferma che, a livello cognitivo, la riabilitazione serve sempre, anche se eseguita a livello blando».
Avete previsto sviluppi futuri di questo percorso di ricerca?
«Abbiamo già effettuato un ulteriore sviluppo: da un precedente studio effettato dal nostro gruppo utilizzando risonanza magnetica, era stato osservato che le persone con SM mostrano un reclutamento maggiore di più aree cerebrali, rispetto ai soggetti sani, nel tentativo di raggiungere una certa performance. Abbiamo ripetuto l’osservazione prima del training cognitivo e al suo termine, per verificare se in seguito all’intervento le persone con SM vadano a focalizzarsi meglio sulle stesse aree che attivano anche i soggetti sani. Stiamo analizzando i risultati, e presto li renderemo pubblici. In caso siano positivi, dimostrerebbero che la riabilitazione ha anche un effetto di riorganizzazione delle mappe neurali e, dunque, un possibile apporto migliorativo sull’andamento complessivo di malattia».
Un ultima domanda, se possibile: uscendo dal recinto prettamente scientifico, che riscontro ha raccolto dalla viva voce delle persone che hanno partecipato?
«Alcuni ci hanno riportato la fatica di dovere fare esercizi con questa frequenza e durata, non era scontato per tutti arrivare alla sera, dopo la giornata di lavoro, e riuscire a cimentarsi in questo impegno. Però, molti, hanno riportato di avere riscontrato un giovamento nelle attività di tutti i giorni: “mi sento meno affaticato mentalmente, quando devo lavorare”. L’obiettivo, per loro, non era solo quello di ricordare di più le cose – obiettivo che non è facilmente raggiungibile, perché implica processi cognitivi molto complessi e con mezzora di esercizio al giorno nessuno, neanche una persona senza SM, diventa capace di imparare a memoria l’Enciclopedia Treccani. Però molti ci hanno detto che le stesse funzioni di tipo cognitivo che prima del training le persone riuscivano a compiere con grande affaticamento, al termine dello studio riuscivano a svolgerle con un po’ più di leggerezza. Ed è un’indicazione preziosa».
Nella foto: Ludovico Pedullà, ricercatore dell'Università di Genova