È stata recentemente approvata la legge che regola l'accessibilità dei siti e delle app degli enti pubblici. Ne abbiamo parlato con Roberto Scano, uno dei massimi esperti nel settore.
Nella foto: Roberto Scano
Oggi le barriere non sono più solo nei luoghi fisici, ma anche e soprattutto nel web in tutte le sue forme, dall’informazione ai servizi e alle applicazioni. Richiedere un certificato, pagare una multa, cercare informazioni su un bando pubblico. Se non ci vedo, se non ci sento, se ho problemi di manualità, se utilizzo particolari tecnologie assistive o ausili per navigare in autonomia nel web, riesco ad accedere agli stessi documenti pubblici che sono disponibili per tutti gli altri?
Un «passo» avanti è arrivato nel mese di settembre con il nuovo testo di legge [1] sull'accessibilità dei siti e delle app mobili degli enti pubblici. Di cosa si tratta? Cosa cambierà questa norma? E quali sono le radici, le grandi questioni che questa nuova normativa affronta? Ne abbiamo parlato con Roberto Scano, uno dei principali esperti italiani e internazionali sul tema dell’accessibilità del web.
Un passo indietro, un passo avanti: da dove siamo partiti per un web accessibile a tutti
«Nel 2004 sul diritto di tutti all’accessibilità del web l’Italia ha prodotto quella che è nota come «Legge Stanca», dal nome dell’allora ministro per l’Innovazione le Tecnologie. Quella legge è nata a seguito dell’anno europeo della disabilità del 2003. All’epoca, anche se poi è stata poco applicata, è stata una normativa innovativa, che ha anticipato ciò che in parte ora chiede la Direttiva Europea del 2016. Di fatto si chiedeva per la prima volta alle amministrazioni pubbliche di rendere accessibili a tutti i propri siti web e anche di rendere accessibile tutto ciò che era legato all’uso dell’informatica, comprendendo le postazioni di lavoro in ambito pubblico e pure in quello delle imprese private. La pubblica amministrazione, da quel momento, non avrebbe più potuto ‘acquistare’ dai propri fornitori un servizio web che non fosse accessibile. Purtroppo, ancora oggi ci scontriamo con una realtà diversa, con siti o informazioni che non sono accessibili».
Chi è Roberto ScanoHa iniziato la sua carriera come sviluppatore, per poi diventare uno dei normatori nel campo del web più influenti a livello nazionale ed internazionale. Ha avviato già dal 1999 in Italia la prima sezione di IWA (International Web Association) della quale è tuttora Presidente. Ha collaborato attivamente alla nascita della Legge Stanca, 9 gennaio 2004, e ha seguito l’iter dei successivi sviluppi normativi a livello nazionale, europeo e internazionale, comprese le regole tecniche mondiali ed europee. Ha partecipato alla stesura della norma tecnica europea EN 301549. Attualmente supporta l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) come Esperto per la normazione e diffusione delle competenze digitali, presiedendo le commissioni UNINFO Attività professionali non regolamentate e e-accessibility, tema di cui è rappresentante dell’Italia nel tavolo Europeo WADEX (Web Accessibility Directive Expert Group |
Perché oggi è un obbligo cambiare ancora insieme all’Europa intera?
«Dalla Legge Stanca ad oggi c’è stata una “super evoluzione”: ormai tutto gira sul web; le pubbliche amministrazioni di tutta Europa usano il web come canale preferenziale per dare informazioni e servizi. In Italia si applicavano le regole internazionali definite dal Consorzio mondiale del web (W3C), ma in altri Paesi queste stesse regole venivano adattate diversamente e non sempre in modo adeguato. E ogni cittadino europeo si trovava di fronte a ingressi differentemente regolati nei vari siti pubblici. Questa situazione era in aperta contraddizione con il principio originario del web, che è nato per essere universale e dunque accessibile a tutti senza discriminazioni. Così l’Europa è intervenuta nel 2016 con una specifica normativa in cui viene richiesto agli Stati membri di adottare un unico standard tecnologico, con specifiche regole tecniche, per tutto ciò che riguarda l’informatica».
Quali le principali novità introdotte?
«La normativa obbligherà anche in Italia i siti web e le “app mobili” sviluppate per le amministrazioni pubbliche a pubblicare una dichiarazione di accessibilità: chi è responsabile di questi servizi dovrà dichiarare pubblicamente se il servizio è conforme o meno alle normative sull’accessibilità. E se poi un utente non trovasse conformità tra dichiarazione e realtà, se si trovasse nell’impossibilità di accedere o fruire di un servizio via web che si dichiara accessibile, in quel caso la direttiva impone all’amministrazione pubblica l’onere di fornire un canale di dialogo facilmente accessibile e all’utente indica la necessità di avere un rapporto diretto con quell’amministrazione e di segnalare la non accessibilità. Se poi, ricevuta la segnalazione, l’amministrazione non intervenisse nella risoluzione del problema riscontrato, l’utente si potrà rivolgere ad un organismo centrale, che per la legge italiana è il ‘difensore civico per il digitale’, che si trova sul sito dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID)».
Che azione svolgerà questo difensore civico?
«È già successo, di recente, che un ricorso inoltrato da un utente di una città italiana si sia risolto con l’imposizione per l’amministrazione locale citata di rimuovere la barriera che creava un problema di accessibilità all’utente. Ma il concetto chiave non è aiutare gli utenti ad aprire un’eventuale contenzioso. Anche se nella normativa resta la parte sanzionatoria, che prevede che un contratto con l’ente pubblico diventi non valido se non è accessibile, il principio guida della normativa è quello di avere servizi e informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, per tutti e senza discriminazione. Se un utente vuole acquistare on line o nell’app per mobile un biglietto di Trenitalia, quell’utente chiede e pretende che la app sia accessibile. Tendenzialmente la direttiva porta avanti questo approccio che è anche culturale. In più obbliga gli stati membri a effettuare un monitoraggio di cui si deve poi relazionare alla Commissione europea».
I principi del “Design universale” o “ Design for all”[2] , nati per favorire l’accessibilità degli spazi fisici sin dalla loro progettazione e ripresi nella Convenzione ONU dei Diritti delle persone con disabilità, vanno dunque estesi al “world wide web” con specifiche regole di applicazione?
«Assolutamente sì. Il concetto di “sito” oggi va considerato non solo come sito informativo ma anche come applicazione, ossia come sito che dà servizi. Se mi collego al sito di un Comune e voglio pagare la rata della mensa scolastica di mio figlio o interagire con il Comune, tutti quei servizi per cui mi collego devono essere accessibili, cioè non ci devono essere barriere in quel sito comunale ai servizi erogati al cittadino. Le regole dell’accessibilità, quindi, valgono anche per tutti i servizi che ci sono dentro il sito».
Dove si trovano queste regole?
«La Direttiva europea fa riferimento a una norma che si chiama EN 301 549. La stiamo traducendo in lingua italiana e contiene anche indicazioni sul posizionamento degli oggetti hardware, dei computer, delle postazioni presenti fisicamente nel luogo dove viene erogato il servizio, del software e dei documenti non web per consentire a tutti un’interazione informatica con quel servizio, anche coloro che non hanno un pc o smartphone personale. La EN 301 549, per esempio, dice quali devono essere gli spazi in cui devono fisicamente essere collocate le postazioni a disposizione dei cittadini e quali eventualmente devono essere le pendenze massime da superare per chi deve accedere a servizi informatizzati. Potremmo avere un terminale, come il classico bancomat o un servizio di biglietteria pubblica, totalmente accessibile in quanto a interfaccia grafica e interagibilità per chi non vede, non sente, ha problemi di mobilità o di manualità. Ma se poi quel bancomat, quel servizio di biglietteria viene collocato troppo in alto, diventa di fatto non accessibile per chi è in carrozzina».
Altri esempi?
«La norma prevede tutti i casi noti di possibili difficoltà di accesso in base ai diversi tipi di disabilità. Un esempio ‘tipico’ riguarda la pubblicazione on line dei documenti dell’amministrazione: anche i file in formato PDF (*.pdf) andranno realizzati in formato “word processor” e poi “salvati con nome” in formato PDF. I documenti in PDF scansionati tramite stampanti, invece, sono “immagini” e, come tali, risultano illeggibili dai lettori vocali di schermo utilizzati dalle persone ipovedenti. Allo stesso modo, ogni volta che si inserisce un’immagine in un testo va corredata con una didascalia che la descriva. O, ancora, se una persona con difficoltà motorie, o tremori per esempio legati alla malattia di Parkinson, per arrivare a un servizio disponibile on line deve cliccare su alcuni pulsanti, occorre che siano sufficientemente grandi e sufficientemente distanziati l’uno dall’altro».
Cosa c’è in gioco nella ‘partita’ dell’accessibilità informatica? Qual è il nocciolo di valore?
«Per le persone con disabilità la questione centrale è che il web è sempre più il canale privilegiato per l’accesso a informazioni e servizi. Se una persona con disabilità motoria o visiva può evitare di recarsi fisicamente presso i vari uffici certamente ne trae giovamento, per lei migliora la qualità di vita e si alleggerisce la gestione di tante problematiche. E questo, volendo, diventa un beneficio per tutti, perché anche noi, se non siamo proprio obbligati da qualche servizio o amministrazione che non utilizza ancora il canale on line, non andiamo più a perdere tempo e fare code per ciò che possiamo ottenere on line. Con una differenza sostanziale: noi possiamo sempre andare autonomamente, perdere tempo, ottenere il servizio di cui abbiamo bisogno. L’utente con disabilità rischia di subire una doppia discriminazione, da una parte le barriere o le difficoltà per recarsi fisicamente negli uffici pubblici, dall’altra parte per eventuali barriere all’accessibilità on line ai servizi».
Nella legge si parla di “onere sproporzionato”. In pratica, quanto previsto dalle norme viene temperato da una valutazione di impatto e di esigibilità dal punto di vista organizzativo, tecnologico e così via [3]. Cosa significa? Questa sorta di eccezione non rischia di diventare un alibi per non fare ciò che serve?
«Il concetto di “onere sproporzionato” viene direttamente dalla normativa europea come criterio di ‘buon senso’: se rendere totalmente accessibile un’applicazione, una soluzione diventa troppo oneroso per la tipologia di amministrazione pubblica che deve realizzarlo, allora si possono cercare strade più sostenibili. Già la legge italiana del 2004 consentiva di non fare qualcosa che aveva un onere sproporzionato rispetto al risultato atteso; ma era ed è ancora previsto che, qualora si decida di non procedere, bisognerà comunque motivare adeguatamente la scelta. Dunque, non ci sono scuse cui aggrapparsi. Inoltre, la normativa è ben chiara nell’evidenziare che, qualora un cittadino considerasse che la dichiarazione di onere sproporzionato non sia solida e consistente, motivata, idonea, può sempre rivolgersi al difensore civico del digitale di AgID per far valere i propri diritti».
Sinora abbiamo parlato di pubbliche amministrazioni. E il privato?
«Nella normativa europea il settore privato non è contemplato. È chiaro che ci sono iniziative che invogliano il settore privato all’uso di questi criteri di accessibilità. Pensiamo al turismo: ci sono milioni di persone con disabilità che viaggiano e pretendono sia di avere informazioni reperibili on line sull’accessibilità fisica delle strutture e degli ambienti da visitare, ma anche di avere la possibilità di prenotare informaticamente queste strutture e visite. Usare gli strumenti dell’accessibilità significa per il mondo del turismo allargare la propria clientela. La stessa cosa può valere per il mondo bancario: una persona cieca sceglie più facilmente una certa banca se l’home banking le mette a disposizione la possibilità di leggersi da sola l’estratto conto e il proprio saldo con un sintetizzatore vocale. In ogni caso, molti produttori di tecnologie informatiche stanno adeguando le loro soluzioni alla normativa tecnica europea per gli enti pubblici. Questo vorrà dire, a breve, che anche il mercato privato si troverà a disposizione soluzioni già studiate e verificate per l’accessibilità dei siti pubblici».
Inclusione sociale, non discriminazione empowerment e centralità della persona nell'Agenda della Sclerosi Multipla 2020È necessario intervenire sulle normative, sulle politiche, sui sistemi e sull’ambiente di vita, a partire dall’attuazione della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, per garantire alle persone con SM eguaglianza sostanziale, piena cittadinanza, pari opportunità, non discriminazione e un pieno accesso agli spazi, alle strutture, ai servizi. |
Note
[1] Il decreto legislativo n.106/2018 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 211- 2018 ed è entrato in vigore lo scorso 26 settembre, in Attuazione della direttiva (Ue) 2016/2102. Il testo aggiorna la precedente normativa di riferimento.
[2] Il termine ”Universal Design” viene coniato nel 1985 dall’architetto Ronald L. Mace, che lo definisce come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali“.
[3] Decreto legislativo n.106/2018 , Art. 3-ter (Individuazione dell’onere sproporzionato per l’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili): «Per onere sproporzionato si intende un onere organizzativo o finanziario eccessivo per i soggetti erogatori ovvero un onere che pregiudica la capacità degli stessi di adempiere allo scopo prefissato o di pubblicare le informazioni necessarie o pertinenti per i compiti e servizi, pur tenendo conto del probabile beneficio o pregiudizio che ne deriverebbe per i cittadini e, in particolare, per le persone con disabilità. Non possono costituire, di per sé, un onere sproporzionato i tempi occorrenti per sviluppare i siti web ed applicazioni mobili ovvero la necessità di acquisire le informazioni occorrenti per garantire il rispetto degli obblighi previsti dalla presente legge e dalle linee guida».