La lunga lotta di Antonella, madrina AISM, per diventare mamma naturale o adottiva. Una ferita ancora aperta, un racconto intimo e pubblico insieme, una navigazione che continua: "voglio scorgere la luce che cerco. Non so quando accadrà, ma ci riuscirò".
12/12/2023
«La sclerosi multipla l’ho accettata. Ci ho fatto pace. Ma l’impossibilità di diventare mamma è una ferita ancora aperta. Sono grata per quello che ho vissuto, ma non riesco a farmelo bastare. Io, sinceramente, mi sento una donna a metà».
C’è tutta la tenace consapevolezza di Antonella Ferrari, attrice, giornalista, scrittrice e madrina dell’AISM da più di vent’anni, in questo suo grido di dolore e di rabbia per un desiderio inestinguibile, che non trova risposta e non dà ancora pace. Un consapevole dolore che è diventato un libro: “Comunque mamma” (Harper Collins 2023)
Perché, Antonella, hai deciso di addirittura di scrivere un libro per ‘fare sapere a tutti’ cose molto intime, tue e di tuo marito?
«Il mio primo libro, dove ho raccontato la mia storia prima e dopo la sclerosi multipla, mi ha permesso di fare pace con ricordi dolorosi e di aprire dialoghi autentici con tante persone. Ho pensato che un altro libro avrebbe potuto aiutarmi a lenire una ferita ancora aperta e di consentire ad altre donne come me di sentirsi rappresentate, di riconoscersi compagne di viaggio verso una meta che si fa irraggiungibile ma non smette di chiamare. Andare insieme aiuta, anche se la strada è buia e la notte non diventa giorno».
Il tuo è un desiderio che arriva da lontanissimo, dal profumo di borotalco che sentivi quando, a 19anni, tenevi in braccio tua nipote Federica, ora diventata mamma…
«Sì, da quando ero ragazza desidero fortemente diventare madre. Ho sempre sognato una famiglia con un figlio. Ho sempre sognato il momento in cui andavo dai miei genitori a dire: “sono incinta”. Purtroppo negli anni ho preso consapevolezza che un figlio non sarebbe arrivato».
Come si resiste tanto tempo tra il sogno di avere un figlio e la necessità di curarsi per evitare che la propria salute peggiori?
«È stato duro, ogni volta, capire e accettare quando i medici mi riportavano alla realtà. Secondo me di sbagli nel mio cammino ne sono stati fatti tanti. Non mi hanno detto, a tempo debito, che avrei potuto congelare gli ovuli. Uno sbaglio, che mi ha fatto molto male. L’ho rinfacciato ai miei medici. Mi hanno detto che all’epoca non ero sposata e nemmeno fidanzata, che in quel tempo avevano soprattutto il dovere di curarmi. Ma il rimpianto resta. Avevo un’ovulazione regolare, avrei potuto avere figli».
Hai pianto tante volte, lacrime come pugni nello stomaco e pianti di gioia.
«Vero, ho pianto tanto nella vita. Anche mentre scrivevo questo libro».
E poi, nei tuoi spettacoli, ti si vede regalare sorrisi. Qual è per te la terra di confine, tra il pianto e il riso, quella che ti fa passare da lì a qui?
«Sicuramente il lavoro e la fede sono stati preziosi alleati. Quando lavoro, mi sento appagata come persona e come donna. Quando trovo Dio nella preghiera mi sento bene. E soprattutto c’è mio marito. Lui è terra feconda di sorrisi da abitare».
Genitori, appunto, si diventa in due. Come hai vissuto il suo dolore nel non riuscire a farti felice fino in fondo?
«Roberto, da sempre, è più riservato di me. Io butto fuori, lui tiene dentro. Di sicuro eravamo in sintonia e anche lui voleva un figlio. È stato sempre con me in tutti gli esami, i percorsi, i fallimenti, le difficoltà. Mi ha sempre spalleggiato e sostenuto. Si è anche sottoposto senza battere ciglio ad esami un po’ invasivi per valutare le sue possibilità biologiche di diventare padre».
Roberto è anche l’uomo innamorato che ti ha detto: «Preferisco vivere con te Antonella, come sei, anche se non diventiamo genitori». Ha scelto te più di tutto il resto, figli compresi.
«Negli snodi decisivi mi ha fatto capire quale fosse la strada giusta da percorrere. Come quella volta che le amiche dell’Associazione M’aMa ci proposero di adottare un bambino che aveva una malattia importante. Fu Roberto a dirmi che non dovevamo fare gli eroi a tutti i costi, che forse non avremmo avuto le forze per reggere anche la malattia di un figlio. E poi per l’adozione nazionale e internazionale, quando abbiamo capito che un figlio non ce lo avrebbero mai fatto adottare a motivo della sclerosi multipla, è stato lui a dire che ci dovevamo fermare, per non farci ulteriormente del male. E ci siamo fermati».
Non è una colpa non essere eroi. E non è una colpa non avere figli.
«Purtroppo, quando i figli non arrivano e la donna ha una malattia, è a lei che si attribuisce la responsabilità. Ho scritto questo libro anche per gridare al mondo che non è una colpa di nessuno dei due se non abbiamo avuto un figlio. C’è stato un concorso di fattori, miei e di Robi. E comunque la sclerosi multipla non avrebbe impedito la gravidanza».
Perché, invece, dici che la SM impedisce l’adozione?
«Quando c’è di mezzo una malattia il bambino in adozione non lo danno. Eppure ognuno di noi, anche quando è genitore naturale, ha sempre il rischio di ammalarsi. E chi ha detto che un genitore ammalato non può fare crescere figli sani e riusciti? Ho tante amiche con sclerosi multipla che hanno avuto figli, figli sereni, risolti, non traumatizzati. E se una donna con SM può diventare mamma naturale di un figlio e farlo felice, non capisco perché a me e a ogni donna con SM venga negata la possibilità di adottarne uno».
C’è una giovane donna con sclerosi multipla di Bergamo che ha ottenuto l’adozione, giusto?
«Sì, l'avevo letto sui giornali e così ho scritto al suo avvocato per informarmi come ci fosse riuscita. Ha fatto ricorso contro la decisione del giudice di non affidarle un figlio in adozione e l’ha vinto. Era giovane, asintomatica, aveva una forma molto lieve di sclerosi multipla. È l’unico caso che conosca, a oggi».
Per passare dall’eccezione individuale al diritto riconosciuto a tutte le persone in analoghe condizioni può servire un’associazione?
«Sì. Secondo me ci dovrebbe essere un’associazione che tuteli non solo i diritti dei bambini ad avere una famiglia ma anche le mamme ammalate, perché la loro malattia non diventi una discriminazione e abbiano le stesse possibilità delle altre donne di diventare madri adottive. In tutti i casi, che i genitori siano ammalati o sani, è urgente lavorare per snellire la procedura di adozione, che oggi è troppo burocratizzata, fino a diventare insormontabile».
Come hai scritto tu stessa, puoi guidare, camminare, lavorare, andare al mare e fare l’amore come tutti, grazie ai medici e alla ricerca. In un tempo di coppie che spesso scelgono di non avere figli per non perdersi queste libertà, perché a te non basta?
«Ho amiche che hanno scelto di non avere figli e sono assolutamente soddisfatte e appagate della vita. Sono state le prime a dirmi che si può essere famiglia e vivere felici anche senza un figlio. Ma non c’è niente da fare. Dalla pancia che non ha accolto in sé un figlio continua a salire una malinconia che non so gestire. Sono grata per quello che ho vissuto, ma non riesco a farmelo bastare. Sinceramente, non mi sento completa».
Ne parli con il Dio in cui credi?
«Ho sempre accolto il disegno di Dio nella mia vita, con grande apertura. Anche la malattia alla fine l’ho digerita, l’ho accolta, ci ho fatto pace. Però sui bambini non sono molto d’accordo coi disegni di Dio. Probabilmente, per Lui, non dovevo essere la madre naturale o adottiva di un bambino, dovevo essere mamma in un altro modo, come mi ha detto una volta don Angelo mentre mi sfogavo con lui nella Confessione. Però questo disegno non mi è mai andato a genio. Ci sono stati tanti momenti in cui ho chiesto a Dio, a lungo e tante volte, perché non mi dava la possibilità di diventare madre. Ancora oggi gli parlo e gli dico che faccio proprio fatica ad accettarlo».
Un cerottino per questa tua ferita è il vostro cagnolino, Grisù?
«L’abbiamo scelto, o forse meglio ci ha scelto lui, nel canile dove stava, quando aveva due mesi. Ora ha 17 anni ed è stato davvero importante. Lui è stato, inconsapevolmente, una cura al dolore di non avere un figlio. Avevo bisogno di crescere qualcuno, bisogno di sentirmi responsabile di un’altra vita. Quando lui è arrivato io mi sono sentita veramente la sua mamma. Fino a quando ci sarà lui, quella ferita sanguinerà un po’ di meno».
Qualche settimana fa stavi impazzendo, perché ti hanno "hackerato" il profilo Instagram: è stato un po’, se posso azzardare, come perdere un figlio?
«Dico la verità, non sono troppo social, anche se cerco di esserlo. Però è vero: ho perso 25.000 follower, un disastro! Sui social, come sulla rubrica che curo per Chi, tante persone mi stanno scrivendo che hanno letto il secondo libro e si sono riconosciute nella mia storia. Tante persone mi raccontano la loro vita e mi fanno riflettere sulla mia. Il dialogo, che sia tramite i social, la rubrica o questo libro, è fondamentale, per me: solo così capisco che anche la storia degli altri può essere utile a curare la mia, come la mia può servire ad altri».
Il tuo nuovo profilo Instagram, per continuare a stare in contatto con te?
«antonellaferrari.official. Ricominciamo da capo. Restiamo vicini».
Nell’incerto navigare della vita, che toglie riferimenti fondamentali e a volte ne restituisce altri, una cosa è certa: la strada in salita, per Antonella, non è finita. Come scrive nelle ultime pagine del suo libro: «Non mi piace l’Antonella triste e sconfitta. Voglio scorgere al più presto quella luce che tanto cerco. Voglio trovare quel cerotto resistente che sappia contenere il mio dolore di non mamma. Non so quando accadrà, ma so che ci riuscirò».