Per la seconda volta, dopo Tokio, la nostra testimonial, Giulia Aringhieri, ha partecipato alle Paralimpiadi con la nazionale di sitting volley: «siamo una squadra unita, aperta ai giovani e al futuro». L’emozione di sfilare tra migliaia di persone e di giocare davanti alla propria famiglia, in un palazzetto gremito. L’incontro con Mattarella, “il nonno autorevole e gentile che tutti vorremmo avere». E un messaggio: «lo sport fa bene, migliora la vita».
11/10/2024
Le emozioni che non si smorzano, il ricordo vivo dell’abbraccio di popolo che l’ha conquistata a Parigi, le questioni tecniche di uno sport in crescita, il futuro, la gentilezza del Presidente Mattarella, il paradosso della sclerosi multipla che gioca con lei in Nazionale: c’è un caleidoscopio di colori nel racconto di Giulia Aringhieri, testimonial di AISM, giocatrice della Nazionale di sitting Volley, unica squadra italiana ad essersi qualificata per le Paralimpiadi di Parigi, trasmesse in diretta sulle televisioni nazionali.
Dopo l’esperienza olimpica, dopo un anno vissuto con quella meta davanti, dopo tutto l’impegno per arrivare lì e dare il massimo, ora Giulia è tornata al futuro, nella sua Livorno: «sono appena stata in Consiglio comunale, visto che sono stata eletta tra i nuovi consiglieri. Vorrei dare un contributo, soprattutto sui temi dello sport, che è la mia vita di ieri, di oggi e di domani», dice.
Lo sport è il filo rosso di una vita: c’era prima della diagnosi di sclerosi multipla – giocava a pallavolo nei campionati nazionali - c’è stato dopo la diagnosi, quando nove anni fa ha deciso di accettare la sfida di uno sport che stava nascendo, il sitting volley.
Una scelta che l’ha portata in Nazionale e a due Paralimpiadi: Giulia era stata a Tokio nell’agosto del 2021, in piena pandemia ed è tornata da poco da Parigi 2024.
Due Paralimpiadi a confronto
«La prima Paralimpiade aveva una magia unica – ricorda -: ci sembrava di essere entrate nel paese dei balocchi. Ma è stata anche un’Olimpiade monca, senza pubblico e quasi senza contatti con gli altri atleti, per paura di contagiarsi e di dovere alla fine rinunciare a vivere sul campo il sogno che ci eravamo conquistate. Questa è stata la Paralimpiade della consapevolezza e, soprattutto, quella in cui abbiamo ritrovato il pubblico. Sfilare sugli Champs-Élysées tra due ali di folla, tutti ad applaudire e incoraggiare le proprie nazioni, in una serata luminosa, è stato fantastico. Così come è un’emozione indelebile avere giocato in un palazzetto gremito, davanti a tutta la mia famiglia. Mio marito Marco ha preso con sé nostro figlio Andrea, di 9 anni e tutti e 4 i nostri genitori e li ha portati tutti a Parigi: averli sugli spalti, incontrarli dopo le partite è stata un’esperienza appagante. Se non ci fossero stati loro a supportarmi, quando ho iniziato nove anni fa con Andrea appena nato e in tutti questi anni di ritiri e di gare in giro per il mondo, non sarei mai arrivata fino a qui».
Mattarella, il Presidente gentile che ama la pallavolo
Tra i ricordi che Giulia conserva nell’album della memoria c’è sicuramente l’incontro col Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Averlo così vicino, a un paio di metri, quando eravamo nel cortile di Casa Italia è stato fantastico. Ci ha fatto il suo discorso motivazionale, di incoraggiamento e sostegno ed è stato emozionante. Non pensavo. Si è mostrato come una persona veramente gentile, tranquilla. È venuto normalmente in mezzo con noi. Un uomo di un'altra generazione, di un altro mondo, che sa farsi vicino a persone molto più giovani di lui: è un po’ il nonno che tutti vorrebbe rivorrebbero avere. E quando gli abbiamo detto che noi del sitting volley eravamo l’unica squadra paralimpica presente a Tokio ci ha confidato che il volley è il suo sport preferito e che lo segue con passione».
La top scorer e la panchina
In questa Paralimpiade Giulia, che è un attaccante di razza – non a caso è stata top scorer, la migliore marcatrice nell’ultima partita, quella con cui la nazionale ha conquistato il quinto posto nella classifica finale -, in questa edizione ha giocato un po’ meno che nella precedente. A parte l’età che cresce – “ma non ho ancora intenzione di smettere, dice lei – c’è un motivo legato ai regolamenti di un movimento sportivo che si allarga: «la commissione medica che valuta i nostri livelli di disabilità – racconta – mi ha classificata come atleta con minima disabilità, perché … ho mani, braccia, gambe e piedi in uno sport in cui giocano compagne che hanno subito l’amputazione di un arto. Nell’ultimo anno in nazionale è arrivata un’altra compagna classificata come atleta con disabilità minima. Da regolamento, in ogni squadra possono giocare al massimo due atlete con minima disabilità e mai insieme: se gioca una, l’altra sta in panchina. Ed è possibile un solo cambio per set, tra noi due. Così a volte ha giocato di più lei, altre volte io. Il bello è che abbiamo caratteristiche diverse e compatibili: potessimo giocare insieme saremmo una forza, ma non si può. Comunque ho fatto il mio e come squadra abbiamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo date, quello di migliorare il sesto posto di Tokio. Dunque, siamo tutte soddisfatte della nostra Olimpiade».
Davvero non si poteva arrivare a una medaglia storica, dopo avere vinto gli ultimi campionati europei?
«In questo momento la squadra cinese e quella degli USA sono molto più forti di noi: come Sinner, hanno la capacità straordinaria di giocare meglio i punti decisivi. Noi magari facciamo qualche errore gratuito, nel finale di un set, loro mai. E vincono».
Una vittoria che conta quanto una medaglia
Essere squadra, giocare da squadra, capire che insieme si è più forti di tutto è una conquista che porti con te sempre, e vale tantissimo: «siamo una squadra unita, sin dall’inizio- dice Giulia . Non ci sono tra noi invidie o gelosie, ma una grande compattezza. Un gruppo disunito può vincere qualche partita, per l’exploit di un singolo, ma i grandi traguardi si raggiungono solo insieme. Noi l’abbiamo imparato e non lo abbiamo mai dimenticato. Poi è vero, altre squadre sono più forti. Un applauso a loro, ma anche a noi».
La sclerosi multipla, a volte, gioca come un paradosso, nello sport paralimpico come nella vita, ma in direzioni opposte:
«i miei sintomi sono invisibili – dice Giulia -. Nella vita può essere un vantaggio, da certi punti di vista: non mi obbliga ogni volta a mettere al centro la sclerosi multipla, posso dirlo o non dirlo, decido io. Nello sport è il contrario: devo quasi dimostrare di essere una persona con disabilità! Ogni volta mi chiedono se sono la fisioterapista o se faccio parte dello staff. Altre mi guardano quasi con sospetto, a volte mi tocca arrabbiarmi, rivendicare la mia disabilità, che c’è. E poi un altro paradosso: se migliorassi, la commissione potrebbe togliermi l’idoneità a giocare uno sport per persone con disabilità. E lo sport, per me come per tante persone con sclerosi multipla, è davvero un’esperienza migliorativa. Non sono un medico e non so dire se possa essere considerato alla stregua di una terapia, ma so che io sto meglio se faccio sport, a livello fisico, mentale, psichico. E allora, ditemi: posso fare sport per stare meglio e migliorare la qualità di vita o devo sperare di stare peggio per continuare a fare questo sport, che amo».
Oggi è già domani
Di una cosa Giulia è sicura: «la mia vita sarà nello sport, anche in futuro. Ora lavoro in un Centro di Medicina dello Sport e in quest’anno intenso, fantastico e complicato ho anche conseguito un Master in Management dello Sport e delle Attività Motorie all’Università di Perugia: una strada per vedere altri punti di vista dello sport e per crescere ancora nell’ambito sportivo. Quindi il futuro è lo sport. Non so ancora in che ruolo, ma sarà comunque qui».