«Il coraggio di investire insieme premia»: parola di Gianvito Martino. Il suo progetto di ricerca - selezionato dal secondo bando dell'Progressive MS Alliance - mette in rete ricercatori da sette Paesi per trovare una soluzione a questo tipo di SM. La nostra intervista
Nella foto: il Prof. Gianvito Martino, neurologo, dirige la Divisione di Neuroscienze dell’Istituto Scientifico Universitario Vita-Salute San Raffaele di Milano
«L’acronimo del nostro progetto compone la parola BRAVE: il coraggio premia e ci sembra che tanto l’azione globale della Progressive MS Alliance come il nostro stesso progetto collaborativo siano iniziative e investimenti coraggiosi per dare corpo a una ricerca capace finalmente di identificare nuove terapie per la cura delle forme progressive di sclerosi multipla». Lo afferma il professor Gianvito Martino- che dirige la Divisione di Neuroscienze dell’Istituto Scientifico Universitario Vita-Salute San Raffaele di Milano - ed è uno degli undici vincitori dell’ultimo Bando di ricerca della PMSA con il suo progetto intitolato Bioinformatics and cell reprogramming to develop an in vitro platform to discover new drugs for progressive multiple sclerosis. Lo abbiamo intervistato per approfondirne l’idea di base, gli scopi attesi e le dimensioni innovative.
Cosa intendete realizzare con il vostro progetto di network collaborativo?
«Vogliamo sostanzialmente costituire un innovativo sistema di selezione in vitro di molecole candidate a diventare terapia per le forme progressive di sclerosi multipla. Utilizzeremo strumenti bio-informatici e di biologia cellulare per identificare in particolare molecole che abbiano un ruolo neuro protettivo e terapeutico rispetto al danno neuronale e possibilmente un ruolo rimielinizzante rispetto al danno che la sclerosi multipla progressiva porta a carico degli oligodendrociti»[1].
Quale la novità di questo progetto rispetto alle ricerche esistenti?
«Intendiamo utilizzare come strumento fondamentale della nostra ricerca le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC). Per ricavarle utilizzeremo una procedura complessa ma ormai largamente utilizzata: è la scoperta che ha consentito al Professor Shinya Yamanaka di vincere il Premio Nobel per la medicina nel 2012. Pensiamo che l’utilizzo di queste cellule possa essere uno strumento potente perché, essendo sostanzialmente ricavate dalle cellule della pelle dei pazienti con SM, nel loro DNA racchiuderanno caratteristiche molto vicine a quelle della malattia reale. Di conseguenza le molecole candidate a diventare terapia, una volta testate su queste cellule, potrebbero darci un’indicazione puntuale di quanto sia possibile fare per curare la SM progressiva».
Perché sono necessarie diverse collaborazioni internazionali per realizzarlo?
«Perché è un progetto molto ambizioso, che prevede un’interdisciplinarità spinta, una stretta interazione tra bioinformatico, biologo molecolare, biologo cellulare ed esperto in modelli animali. Serve anche il contesto clinico all’interno del quale selezionare i pazienti da sottoporre a biopsia per ricavare le cellule pluripotenti. Sono dunque necessarie molte expertise difficilmente presenti in un singolo centro. Ormai la ricerca è solo collaborativa e interdisciplinare. Di conseguenza il network, il consorzio, è lo strumento più logico e ragionevole per raggiungere risultati importanti».
Chi vi partecipa a questo nuovo network?
«Abbiamo selezionato nel mondo i maggiori esperti dotati delle differenti competenze necessarie in ogni fase del progetto. In particolare saranno rappresentate cinque nazioni: Italia, Francia, Germania, USA e Canada».
Tornando al progetto, come selezionerete le molecole da testare come possibili candidate a sviluppare una nuova terapia e quante ipotizzate di individuarne?
«Da una parte si utilizzeranno strumenti di bioinformatica: immettendo una serie di input iniziali, indicando preventivamente una serie di caratteristiche che la molecola per noi interessante dovrebbe avere, come ad esempio essere in grado di oltrepassare la barriera emato-encefalica e di agire direttamente sui neuroni e sugli oligodendrociti, otterremo un’indicazione informatizzata del tipo di molecola che potrebbe essere utile analizzare. Dall’altra parte esistono ormai una serie di librerie di molecole già disponibili e sintetizzate in laboratorio. Facendo un’accurata selezione di queste ampie librerie in base alle caratteristiche che pensiamo debbano avere le molecole da candidare per lo sviluppo di una possibile terapia, ipotizziamo di ottenere cento o duecento molecole potenzialmente utili per giungere poi, attraverso una seconda selezione effettuata prima sulle linee cellulari pluripotenti e poi sui modelli animali di SM, ad avere al termine di questo progetto di ricerca due o tre molecole candidate per potere essere testate direttamente nei pazienti».
Quanti e soprattutto quali pazienti potranno essere inclusi per ricavare le cellule pluripotenti necessarie a svolgere la ricerca?
«Avremo poche decine di pazienti, anche perché la procedura con cui si isolano e producono queste linee cellulari è comunque molto complessa. Ma l’importante, più che la quantità, sarà scegliere persone con caratteristiche di malattia che possano rappresentare lo spettro per cui cerchiamo nuovi trattamenti. Però il fatto che le cellule studiate verranno da specifici pazienti non significherà in alcun modo che poi automaticamente un eventuale trattamento sia quello utilizzabile proprio per quelle persone».
Perché cercate in particolare molecole con effetto protettivo e rimielinizzante?
«Ad oggi le terapie anti-infiammatorie di cui disponiamo per la forma a ricaduta e remissioni non funzionano per le forme progressive. Siccome nelle fasi progressive di sclerosi multipla, rispetto alle fasi a ricadute e remissioni, si riscontra un maggior danno alla mielina e al neurone, pensiamo di andare a cercare molecole che possano aiutare il tessuto danneggiato in qualche modo a ripararsi, a rigenerarsi».
Cosa succederà nella vita di una persona con SM se verrà individuato un trattamento in grado di rigenerare il neurone compromesso dalla malattia in fase progressiva?
«Questo è il punto nodale: la risposta alla domanda dipende da ciò che troveremo. Ad oggi non esistono terapie in grado di fare ricrescere i neuroni: se i neuroni danneggiati arrivano in fase terminale, non ricrescono più. È altresì vero che però il cervello è molto plastico e, dunque, anche se alcuni suoi circuiti sono stati irreversibilmente danneggiati, se ne possono creare altri che in qualche modo si sotituiscano a quelli danneggiati e consentano al sistema nervoso di funzionare comunque in modo adeguato. Insomma, anche se non saremo in grado di rigenerare la cellula ormai morta, una soluzione per la cura delle forme progressive di SM potrebbe essere stimolare quelle ancora vive a sostituire funzionalmente le zone danneggiate».
Il vostro nuovo network, una volta costituito attorno a questo progetto, potrà poi continuare la sua ricerca collaborativa al di là del progetto stesso?
«Certamente: lavorare insieme su progetti importanti costruisce anche una certa familiarità con una serie di metodiche che diventeranno in se stesse patrimonio del network e che, anche in futuro, potranno essere importanti strumenti per nuove ricerche collaborative».
Note
[1] Oligodendrocita letteralmente significa ‘cellula con pochi rami’. Le nostre cellule oligodendrocitarie hanno la funzione essenziale di produrre la mielina che riveste le cellule del sistema nervoso.