«Io, psicologa, ai tempi del Coronavirus: ecco cosa ho imparato dai ragazzi e dalle persone con SM che seguo». Da alcuni anni la dottoressa segue un gruppo di adolescenti e giovani che hanno avuto la diagnosi di SM. Con loro ha anche realizzato un progetto di ricerca basato sulla mindfulness, presentato lo scorso anno al Congresso FISM. Ci ha messo in contatto con i ragazzi e chiesto ai loro genitori il consenso all’intervista e, ora, legge con noi i pensieri, le emozioni, le storie che ha incontrato nelle persone con SM in questi mesi e le proprie stesse reazioni e comportamenti in questo tempo di pandemia.
22/05/2020
«I ragazzi da una parte dicono: “che noia, non se ne poteva più, ci è toccato passare per forza con i nostri genitori più tempo di quello che avremmo voluto". Chi è fidanzato o fidanzata non ha potuto vedere il suo amore, così come gli amici e le amiche. E questo è pesato. La mia sensazione, però, è che alla fine non abbiano vissuto così male questa situazione. Quando li ho rivisti on line non sono sembrati angosciati, anzi qualcuno è stato persino facilitato dal non dover andare a scuola consumando tempo e fatica sui mezzi pubblici. Nessuno di loro si è arenato: l’impegno ce lo sta mettendo.
Poi, proprio in questo momento si sono trovati a svolgere tanti lavori di gruppo insieme a persone che non facevano parte della cerchia delle amicizie scolastiche e che non avrebbero scelto o da cui non sarebbero stati scelti per lavorare in altri momenti. In qualche modo, per paradosso, stando in casa si sono allargate le cerchie delle persone con cui si sono trovati ad interagire. Un’altra persona ancora giovane, ma non minorenne, mi ha detto poi quasi con senso di liberazione che durante la quarantena si è sentita finalmente legittimata a stare sul divano e a riposarsi senza sensi di colpa. Prima la fatica era frustrante, ma c’era sempre bisogno di fare e di andare, stare al ritmo degli altri. In questi due mesi – mi diceva – mi sono sentita un po’ più uguale a tutti gli altri».
In ogni caso sarà difficile dire “beata quarantena”, sia per i drammi che abbiamo affrontato, sia perché a un certo punto si doveva ricominciare a ‘uscire’ …
«Certo. Le difficoltà sono state enormi per tutti, e anche per le persone con SM. Una storia mi ha colpito e insegnato molto. Sto seguendo una giovane donna, di 35 anni circa, che ha avuto la diagnosi da qualche mese. Ha avuto una ricaduta a gennaio e una durante l’emergenza COVID. È preoccupata e molto spaventata perché la SM non sembra sotto controllo, la terapia non funziona, deve cambiarla. Sarebbe successo anche prima del COVID, ma ora è tutto amplificato. In più ora lei è a casa tutto il giorno con i suoi due figli, mentre suo marito lavora. Neanche i nonni hanno potuto andare a darle una mano. Così lei deve convivere con la pesantezza delle sue paure e angosce cercando di non gettarle addosso ai figli. E però non ha modo di ricavarsi qualche parentesi e prendersi cura di sé, del proprio bisogno di pace interiore. Poi l’Ospedale emotivamente è diventato un luogo ancora più straniante. Un giorno è dovuta andare per la ricaduta e non ha proprio riconosciuto il medico che si prendeva cura di lei: la mascherina, gli occhiali, i guanti, creano anche un senso di distanza relazionale più forte. Le stesse infermiere prima magari avevano un minimo di possibilità di fermarsi a scambiare due parole, ora le distanze vanno mantenute. E poi, prima ti accompagnava qualcuno, che ti sosteneva emotivamente; ora vai da solo. Le stesse poltrone nella sala di attesa devono essere occupate a sedili alterni. L’ambiente, per forza, è più freddo, asettico, distanziante».
La distanza fisica diventa anche una percezione di distanza emotiva, relazionale, di mancanza di affetto. Un costo che continueremo a pagare, perché il distanziamento resterà l’imperativo anche del prossimo futuro. E tu, in tutto questo, come ti sei sentita con la tua professionalità centrata sulla relazione di aiuto?
«Le persone con una malattia cronica come la SM instaurano con noi, con me, una relazione di lunga durata. Ora, anche solo il fatto di dare il mio numero di telefono cellulare, cosa che prima tendenzialmente non facevo, probabilmente intesse un nuovo senso di vicinanza. Poi ho imparato a usare la videochiamata in modo massiccio. E questo consente a tutti noi un nuovo sguardo sulla vita privata dell’altra persona, anche del professionista socio-sanitario. Quando ci si chiama, magari le persone notano il quadro, la libreria, la foto, la tisana che mi vedono in mano. E commentano, con un senso nuovo di intimità. Prima ti vedevano sempre in un ambulatorio, con il camice bianco, ora è come se potessero entrare in casa tua, e tu in casa loro. Una cosa sinora impensata. Uno di loro mi ha detto: vedi questo quadro, ecco l’ho dipinto io. Magari non mi avevano mai detto che dipingevano. Si aprono così dei link di vita che vanno oltre la malattia e che sono di condivisione della vita intera, anche per me. Sono sempre la professionista, ma non quella che sta nella stanza 12 dell’Ospedale».
A volte la distanza finisce per aumentare la vicinanza. Una lezione da non dimenticare.
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Questa storia fa parte di una serie di storie, un “giro” d’Italia di racconti per ‘condividere’ cosa significhi vivere l’emergenza sclerosi multipla nel tempo dell’emergenza Coronavirus.
Per trasformare poi le nostre storie individuali in una storia nuova per tutti, #insiemepiù forti vuol dire anche “DONA ORA”. Diciamolo, a tutte le persone con cui siamo in contatto: donare ora ad AISM trasforma la debolezza in forza, l’emergenza in un nuovo inizio.