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28/05/2014

Lo sviluppo di nuovi trattamenti tra laboratorio e industria

È possibile passare in un tempo relativamente breve dalla ricerca in laboratorio alla realizzazione di nuove terapie innovative, capaci di cambiare la vita delle persone? L'intervista al ricercatore/imprenditore ospite del Congresso FISM 2014

AdoriniÈ possibile passare in un tempo relativamente breve dalla ricerca accademica effettuata in laboratorio alla realizzazione e diffusione di nuove terapie innovative, capaci di cambiare la vita delle persone? La risposta è sì, senza dubbio: è accaduto nel caso del dottor Luciano Adorini, che ha parlato nel suo intervento al Congresso FISM 2014. Luciano Adorini è dal 2008 il Direttore Scientifico di Intercept Pharmaceuticals, una piccola società biofarmaceutica, con 60 collaboratori, la sede principale a New York e diverse diramazioni internazionali. L’aspetto interessante, decisamente poco comune in Italia, è che Intercept Pharmaceuticals, come racconta lo stesso Adorini «è il racconto di una storia di successo, che dimostra come una ricerca scientifica ben impostata possa portare anche a risultati clinici importanti: Intercept sta per realizzare un farmaco innovativo, il primo ad affrontare una malattia ancora orfana di trattamenti, nato dalla ricerca di laboratorio effettuata dalla nostra stessa biotech, che ne detiene i diritti».

Dottor Adorini, ci racconta da vicino qual è l’aspetto innovativo di Intercept, almeno per l’Italia?
«Stiamo sviluppando un agonista del recettore FXR [recettore nucleare X farnesoide; Farnesoid X Receptor, agonist INT-747]: in studi clinici di fase III, molto avanzati, abbiamo dimostrato che è efficace nella terapia della cirrosi biliare primitiva, una malattia autoimmune del fegato. Ancora più importante, studi clinici di fase IIb hanno chiaramente dimostrato efficacia di questo agonista FXR nella steato-epatite non alcolica (NASH - Non Alcoholic Steato Hepatitis), una forma di epatite che deriva da cause non ancora completamente chiarite. Per questa malata non c’è attualmente nessun farmaco registrato e approvato.»

Quale indirizzo può offrire il vostro tragitto al mondo della ricerca scientifica italiana sulla SM?
«La vicenda di Intercept dimostra come sia determinante per chi fa ricerca avere sin dall’inizio l’obiettivo di tradurre in pratica le proprie ricerche scientifiche. Questo richiede una visione a lungo termine, che spinge a fare ricerca in modo che abbia un impatto sociale e porti a tangibili benefici per i pazienti. Alla fine il risultato che vogliamo davvero ottenere non è fare esperimenti fini a se stessi o esclusivamente diretti a capire alcuni segreti della natura, ma cercare di tradurre quello che facciamo ogni giorno in laboratorio in applicazioni pratiche che possano portare benefici per l’umanità».

È una questione che si risolve solo se «i ricercatori» cambiano un po’ la loro cultura? Non servono anche condizioni strutturali, economiche e, soprattutto, il supporto delle istituzioni pubbliche per una ricerca che arrivi velocemente a nuovi farmaci?
«Sono abbastanza anziano per ricordare come diversi anni fa fosse quasi un disonore, per un ricercatore attivo nel mondo accademico, occuparsi della traduzione operativa delle proprie scoperte verso nuove terapie. Oggi è cambiato il rapporto fra accademia e industria, ed il mondo della ricerca è già avanti, da questo punto di vista. Mancano invece condizioni più strutturali, almeno in Italia. Negli USA, per esempio a Boston, a New York o a San Diego, esistono 200-300 piccole industrie biotech come la nostra. Non tutte riescono ad avere una storia di successo. Ma è importante avere un tessuto di ricerca applicativa di questo tipo, cui un ambiente di ricerca accademica possa rivolgersi per interagire in maniera reciprocamente fruttuosa. In Italia questa dimensione è sostanzialmente assente e spero in futuro si possa correggere la situazione attuale, anche con l’aiuto delle istituzioni europee.»

A proposito di istituzioni, la storia che lei rappresenta ricalca, idealmente, il percorso che vorrebbe effettuare la nuova «Alliance» internazionale nata dalle Associazioni SM per guidare e accelerare al massimo la messa a punto delle terapie che ancora mancano per le forme progressive di sclerosi multipla. Ritiene che il percorso di Intercept sia replicabile dall’Alliance?
«L’Alliance sulle forme progressive di SM è perfettamente in linea con Horizon 2020, il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l'Innovazione (2014 - 2020). Penso dunque che l’Alliance per la cura delle forme di SM ancora orfane di trattamenti specifici abbia tutte le carte in regola per essere presa in considerazione dalle organizzazioni di partenariato pubblico-privato attive in Europa, quali Innovative Medicines Initiative, per finanziare la realizzazione e lo sviluppo di trattamenti innovativi».

Secondo lei un forte legame tra mondo della ricerca, associazioni di pazienti, istituzioni e industria non è un problema, ma un punto di forza? Le associazioni in questo modo non rischiano di essere troppo prone alle scelte e, in fondo, ai profitti delle aziende, mentre il loro ruolo dovrebbe essere anzitutto quello di dare forza ai diritti delle persone a una ricerca che rispondaprimariamente ai loro bisogni?
«La qualità della nostra salute negli ultimi decenni è molto migliorata, le aspettative di vita sono decisamente aumentate per tutti. E questo è dovuto, anche, ai progressi delle cure che sono state rese disponibili per le nostre malattie. Ora, lo sviluppo di un farmaco richiede mediamente 10-12 anni di tempo, con un investimento nell’ordine di 1-1,5 miliardi di euro. Sono cifre molto impegnative per chiunque vi si voglia cimentare. Se il processo di scoperta e sviluppo di un farmaco non fosse sufficientemente remunerato, diventerebbe impossibile da sostenere per chiunque. L’industria farmaceutica, da questo punto di vista, ha una grande responsabilità, ma la storia della salute dell’umanità, penso, dimostra che anche l’industria ha cercato di agire tenendo fermo come fine il bene dei pazienti piuttosto che un puro e semplice arricchimento riservato a pochi».

Che messaggio le sembra possa giungere da questi percorsi direttamente per le persone con SM e le loro Associazioni?
«Rispondo con un’altra storia, quella degli antibiotici. Quarant’anni fa sono stati un grosso territorio di ricerca per le case farmaceutiche fa. Il problema sembrava risolto, e le compagnie hanno abbandonato la ricerca di nuovi antibiotici. Ma, anche per un uso non appropriato delle terapie antibiotiche, si sono generati diversi ceppi resistenti alle terapie esistenti, basti pensare alla tubercolosi multi-resistente. Così ci si trova ora a dover correre ai ripari. La ricerca, dunque, non deve mai fermarsi e sono proprio i pazienti e le loro associazioni ad avere un ruolo fondamentale per continuare ad esigere che la salute di tutti sia un diritto reale per cui non possono mai mancare le risposte».

Giuseppe Gazzola

Bio
Luciano Adorini , MD è dal 2008 Direttore scientifico Intercept Pharmaceuticals dal 2008.  In passato ha diretto un gruppo di ricerca presso il Research Center di Sandoz Pharma SA, Basilea (CH) ed è stato Direttore Associato di Roche Milano Ricerche , Milano,dove ha contribuito allo sviluppo di diversi farmaci. È statoChiefScientificOfficer di BioXell in Milano , uno spin- off di Hoffmann -La Roche, di cui è stato co-fondatore. I suoi interessi di ricerca sono focalizzati sulla patogenesi e il trattamento di malattie  infiammatorie eautoimmuni  e vanta una ventennale esperienza nel settore. Laureato in Medicina alla Facoltà di Medicina dell'Università di Padova, ha condotto studi post-dottorato presso l'Università della California a Los Angeles