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29/10/2013

Pubblicato su Nature Communications uno studio italiano sull’efficacia delle staminali neurali ricavate dalla pelle

 

La ricerca, realizzata dai ricercatori del San Raffaele di Milano apre una via promettente per la ricerca di nuove cure. L'intervista alla ricercatrice Cecilia Laterza

 

Cecilia LaterzaLa prestigiosa rivista Nature Communications ha pubblicato online l’articolo di un importante studio concluso dal gruppo dei ricercatori dell’Istituto di Neurologia sperimentale (INSpe) dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, coordinati da Gianvito Martino, direttore della Divisione di Neuroscienze del San Raffaele[1]. La ricerca - finanziata principalmente dalle Associazioni SM italiana e statunitense - dimostra che le cellule della pelle possono essere trasformate prima in cellule staminali pluripotenti e poi in neurali adulte capaci, per ora in modelli animali di SM, di istruire le cellule nervose colpite dall’infiammazione a stare meglio, a ricostruire i danni subiti dalla mielina e a ridurre la stessa infiammazione.

 

Cecilia Laterza, la giovane ricercatrice che è prima firmataria dell’articolo, solo una settimana fa, il 22 ottobre, ha discusso brillantemente la sua tesi di dottorato. Dietro la scienza, dietro le scoperte, ci sono giovani ricercatori italiani per i quali la ricerca è anzitutto una passione. Da coltivare con tenacia, giorno dopo giorno.

 

Dottoressa Laterza, è vero che dopo Yamanaka[2], Premio Nobel per la Medicina 2012 proprio per i suoi studi sulle staminali, siete arrivati voi?
«Non esageriamo. È vero che abbiamo utilizzato le scoperte di Yamanaka: ci sono alcuni vettori virali che, ingegnerizzati in laboratorio emodificati, sono in grado di indurre cellule del nostro corpo già pienamente differenziate a tornare ad uno stato di cellule pluripotenti. Pluripotente è una cellula che idealmente può diventare una qualsiasi cellula del nostro organismo. È l’equivalente di una cellula embrionale, con l’enorme vantaggio che non c’è bisogno di embrioni per ottenerla».

 

Voi che cellule avete utilizzato? E cosa avete osservato?
«Per quanto riguarda il nostro studio preclinico, abbiamo prelevato le cellule della pelle e le abbiamo messe in coltura, in laboratorio. Abbiamo poi ‘infettato’ queste cellule con un unico virus, un lentivirus che è stato ingegnerizzato per esprimere tre delle proteine fondamentali scoperte da Yamanaka, che sono Oct 4, Sox 2 e Klf 4. Questi tre fattori di trascrizione sono stati sufficienti per indurre i fibroblasti in coltura a tornare ad essere cellule pluripotenti. Già pochi giorni dopo l’infezione hanno iniziato a cambiare morfologia e dopo un mese erano sicuramente pluripotenti. Nel lavoro avevo poi caratterizzato estensivamente la linea per assicurarmi che fosse veramente pluripotente. Ho valutato quindi l’espressione di marcatori legati alla pluripotenza, la capacità di questa cellula di differenziare in tutti i tipi cellulari che costituiscono il nostro organismo, e poi ho effettuato altri test in vivo più specifici».

 

A questo punto?
«Abbiamo utilizzato il protocollo messo a punto dal gruppo della professoressa Elena Cattaneo, con cui abbiamo collaborato, per ottenere dalle nostre cellule pluripotenti un particolare tipo di staminali adulte, le neurali. Poi queste cellule sono state trapiantate nel modello murino di SM, l’EAE (Encefalomielite allergia sperimentale). Per seguire il loro destino dopo il trapianto le ho marcate in laboratorio con una proteina verde fluorescente».

 

E cosa avete osservato di decisivo? Che effetti producono?
«Abbiamo visto che queste cellule riescono a riconoscere i siti di danno presenti nel sistema nervoso centrale, dove c’è un’infiammazione attiva che poi produrrà il danno di demielinizzazione e il danno assonale. Una volta localizzate, restano in stato di quiescenza, non differenziano, proliferano molto poco, non si integrano nel tessuto, stanno semplicemente vicine alle cellule infiammatorie e producono fattori tali che permettono alle cellule del tessuto di rispondere meglio al danno, di sopravvivere e di rigenerare. Noi, in particolare, abbiamo osservato che un fattore determinante è il LIF, LeukemiaInhibitoryFactor: ha la capacità di proteggere gli oligodendrociti dalla morte indotta dall’infiammazione. Quindi gli oligodendrociti preesistenti producono dell’altra mielina e questa va a ricoprire gli assoni che si erano scoperti a causa dell’infiammazione».

 

Insomma, si avvia la rigenerazione di mielina e si interrompe l’infiammazione della malattia?
«Queste neurali adulte vengono istruite dall’infiammazione a produrre certe molecole che preservano il tessuto, favoriscono da un lato la rigenerazione e dall’altro la sopravvivenza. Si creano quindi anche meno frammenti di mielina, meno sostanze che poi, a loro volta, richiamano ancora infiammazione e dunque, gradualmente l’infiammazione si spegne. Non essendoci più il richiamo di altre cellule infiammatorie dovute al danno che si viene a creare, man mano la barriera emato-encefalica, quella che protegge il nostro sistema nervoso dall’esterno, riduce la sua ‘disponibilità’ a lasciarsi trapassare dalle cellule infiammatorie, le lascia fuori. Si riduce il danno e si spegne l’infiammazione».

 

C’è stato un momento particolare nello studio in cui ti si sono illuminati gli occhi e hai detto: ‘ci siamo, funziona!”…
«(sorride) Vari momenti. Sicuramente quando dopo tantissimi sforzi vedi che riesci a generare queste cellule. Avendo iniziato proprio da zero, ogni volta ti dici: “allora veramente succede”. Quando vedi che, una volta trapiantate queste cellule, gli animali stanno meglio, quando osservi che il miglioramento si conferma ogni volta che ripeti l’esperimento, allora trovi sicurezza, convinzione, entusiasmo per continuare».

 

Quanto ci è voluto a concludere tutto questo iter?
«Circa tre anni».

 

Cosa aggiunge di nuovo questo studio? Perché viene pubblicato?
«In genere negli studi sui modelli animali di malattia si utilizzano sempre le staminali neurali adulte che derivano dal sistema nervoso centrale: è stata già dimostrata la loro efficacia e sicurezza nei modelli animali di SM. Il punto critico è che tutte queste cellule sarebbero sempre di fonte eterologa e, dunque, il rischio di rigetto resterebbe alto. Se si arrivasse un giorno a sperimentare una terapia associata a queste neurali adulte nell’uomo, la si dovrebbe sempre associare a un certo grado di immunosoppressione. L’aver scoperto che si possono invece ricavare dalla pelle del paziente stesso vuol dire che, in caso di trial clinico sulle persone, le neurali adulte da utilizzare verrebbero dal paziente stesso. Si aprirebbe dunque la via per un possibile trattamento personalizzato nel senso pieno della parola, perché sarebbe la persona stessa all’origine delle cellule staminali neurali adulte con cui potrebbe essere curata».

 

Quando inizieranno studi analoghi al vostro a partire dalla pelle delle persone, allora?
«Stiamo già studiando se e come si possano ottenere staminali prima pluripotenti e poi neurali adulte direttamente dalla pelle delle persone, confrontando persone con SM e controlli sani anche per verificare se nelle persone con SM entrino in gioco meccanismi diversi che potrebbero avere una funzione causale nell’evoluzione di malattia. Ho anche raccolto la biopsia di due gemelli, uno con SM e uno senza, sempre per verificare se ci sia la possibilità di capire qualcosa in più sulla causa».

 

Costa?
«Tanto. Per arrivare ad avere staminali neurali adulte sicure e in numero sufficiente per effettuare un trial clinico ci vorrebbero decine di migliaia di euro. I procedimenti per ottenerle devono ancora essere settati e ottimizzati».

 

Tu come sei arrivata alla ricerca sulla SM?
«Ho studiato all’Università di Padova e sono rimasta affascinata dallo studio delle staminali, grazie al professor Stefano Piccolo, ricercatore di fama mondiale. Ho fatto la tesi di laurea proprio sulle staminali, a Londra, con Paolo De Coppi, che studia le staminali del liquido amniotico. Poi sono entrata nel gruppo di Gianvito Martino al San Raffaele, dove la ricerca sulle staminali non viene effettuatacome studio a se stante, ma applicata alla ricerca di una cura per una malattia complessa come la sclerosi multipla. E questo dà a noi che facciamo ricerca molta più motivazione: il nostro lavoro ha anche aspetti spesso frustranti, moltiplichiamo gli esperimenti e a volte non capiamo perché non funzionano, magari a giorni ci si può demoralizzare. Quando però intravedi qualcosa di positivo, che potrebbe aprire la via a nuove terapie, allora la scoperta è ancora più bella, perché sai che è un piccolissimo passo, un piccolo tassello del puzzle che consentirà di aiutare tantissime persone».

 

A proposito di persone, quando finisci di lavorare, oggi?
«Verso le 20,00-20,30. Tutti noi. E si andrebbe avanti ad oltranza. Per il dottorato finivo anche alle 23.00 o alle 24.00».

 

Cosa dicevano a casa ?
«Appunto. Il mio ragazzo fa il dentista, e non capisce tutta questa passione senza limiti di tempo…».

 

E allora?
«Dopo Natale prenderemo qualche giorno di vacanza in più, andremo lontano a festeggiare il dottorato e a riprenderci un po’ di tempo insieme».

 

Giuseppe Gazzola

 


Note


[1] Cecilia Laterza, Arianna Merlini, Donatella De Feo, Francesca Ruffini, RameshMenon, Marco Onorati, EvelienFredrickx, Luca Muzio, Angelo Lombardo, Giancarlo Comi, Angelo Quattrini, Carla Taveggia, Cinthia Farina, Elena Cattaneo& Gianvito Martino; iPSC-derived neural precursors exert a neuroprotective role in immune-mediated demyelination via the secretion of LIF , Nature Communications, 29 ottobre 2013

[2] Le cellule pluripotenti indotte (IPCs) sono state prodotte per la prima volta nel 2006 a partire da cellule di topo, e nel 2007 da cellule umane in una serie di esperimenti condotti dal gruppo del professor Shinya Yamanaka presso l'Università di Kyoto, in Giappone.