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Raccontare la fragilità è già un pezzo di cura

Un dialogo con Francesca Mannocchi, giornalista freelance che si occupa di migrazione e confltti e collabora con molte testate italiane e internazionali. Nel 2018 ha dedicato alla sclerosi multipla una inchiesta pubblicata sull'Espresso "Io, la malattia e il patto spezzato". Ci racconta i cambiamenti che la sclerosi multipla ha portato nella sua vita e nel suo lavoro

14/12/2019

«Un giorno, mentre attraversavamo un vicolo di tre metri a Mosul, nell’Iraq appena liberato, io e Rodi siamo stati lisciati dai colpi di un cecchino. Due colpi sordi, puliti. “Mannocci, our lucky day”. Il nostro giorno fortunato. Non è stato il solo». Francesca Mannocchi ha visto tante volte la morte in faccia. Del resto, è una giornalista e documentarista che si occupa di migrazioni e zone di conflitto. E in fondo, quello che la porta irresistibilmente a partire per territori difficilissimi e che cerca di restituire, sempre, è il «racconto della vita» con tutte le sue domande decisive e spiazzanti.

Il nostro incontro, così, inizia dall’incipit del suo ultimo libro (“Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi”): «A Pietro, le mie nuove lenti sul mondo».

 

Pietro è tuo figlio, Francesca?

 

Sì, ha tre anni. La prima volta in cui l’ho lasciato per andare in Iraq aveva 40 giorni.

 

Caspita.

 

Quando fai l’esperienza della maternità, cioè del dare vita a un altro e prenderti cura di lui, attivi recettori dell’attenzione che prima non avevi. Certo, sono sempre stata una persona molto attenta alle fragilità degli altri, ai problemi degli altri, anche per il lavoro che faccio. Ma Pietro ha indubbiamente moltiplicato questa vista.

 

Perché?

 

Essere madre di Pietro mi consente in qualche modo di “super-vedere” le cose, di vedere le cose oltre quello che sono. Una delle parole abusate del giornalismo e della vita quotidiana è “empatia”. L’esperienza di avere un figlio, di diventare madre, supera l’empatia e ti consente un grado di attenzione costante all’altro. Un’attenzione che non può consumarsi nel tempo rapido di un’intervista ma diventa una pratica continua che puoi mai abbandonare.

 

Da giornalista e da madre, cosa ti succede mentre sei sul fronte e incontri i bambini della guerra?

 

L’emozione più semplice che provo, e la provo sempre, è l’immediata sensazione che io stessa e mio figlio siamo nati per uno scherzo del caso dalla parte fortunata del mondo. Un giorno glielo spiegherò. Poi arrivano emozioni più complesse, il dolore, la consapevolezza che probabilmente quei bambini non avranno mai le medesime possibilità che ha mio figlio, per quanti sforzi io e tanti altri facciamo per raccontare le ingiustizie cui sono sottoposti. E allora rispetto ai bambini, che siano i figli delle vittime di Isis o i figli dei miliziani di Isis, tento tenacemente non già di raccontare l’oggi, ma di raccontare immediatamente ciò che noi possiamo fare per il loro domani. Il racconto del loro oggi, purtroppo, è una storia di strazio e di dolore; il tentativo che tutti noi dovremmo proporci è invece cosa cambiare e come.

 

E cosa possiamo fare per cambiare il corso della storia, da questa parte del mondo?

 

Possiamo fare domande. E farci domande. È l’unico diritto e prima ancora l’unico dovere che abbiamo: provare ad entrare nelle aporie, negli spazi di non comprensione, negli spazi di contraddizione anche dolorosa. Alcune domande resteranno inesorabilmente senza risposta, ma è la forza delle domande che crea la ricerca, costruisce la pubblica opinione e le scelte che poi facciamo.

 

Possiamo fare domande. E farci domande. È l’unico diritto e prima ancora l’unico dovere che abbiamo: provare ad entrare nelle aporie, negli spazi di non comprensione, negli spazi di contraddizione anche dolorosa. Alcune domande resteranno inesorabilmente senza risposta, ma è la forza delle domande che crea la ricerca, costruisce la pubblica opinione e le scelte che poi facciamo.

 

Lo penso anche io, grazie: a volte quando leggo le interviste –non le mie, non questa … – mi dico che mi piacciono più le domande delle risposte …

 

Qui Francesca ride, finalmente, ma c’è una sorpresa dietro l’angolo, almeno per chi non la conosce.

«In questi anni due eventi hanno cambiato radicalmente il mio sguardo sulle cose e sulla vita: la nascita di mio figlio e la sclerosi multipla».

 

Possiamo chiederti come è arrivata la sclerosi multipla nella tua vita?

 

È successo che nel 2016 improvvisamente una mattina, mentre ero in Sicilia per lavoro, mi sono svegliata con la parte destra del corpo dalla spalla al piede formicolante, addormentata. Questa sensazione è durata ininterrottamente per sei giorni, notte e giorno, fastidiosa al punto che non potevo guidare. Poi il formicolio è terminato da solo, senza che facessi niente, ma sono cominciate delle fastidiosissime scosse elettriche sul braccio sinistro. Ho pensato che fosse l’espressione di un momento di particolare tensione lavorativa e che non ci fosse quindi niente di particolare di cui preoccuparsi. Ma una parte di me mi diceva che quello che stavo provando era tutto straordinariamente anomalo.

 

E cosa hai fatto?

 

Sono andata da un medico, amico di famiglia. Gli ho raccontato in dettaglio i miei sintomi. Era un pomeriggio di sole e lui ha scritto la lista degli esami che avrei dovuto fare. Il quesito diagnostico, sulla ricetta, era: “sospetta sindrome demielinizzante”. Una parola che non avevo mai sentito nella mia vita. Appena uscita dal suo studio ho cercato su Google cosa significasse, cadendo in una sorta di precipizio, di panico. La prima catena di parole ed eventi che mi si è stampata nella mente è stata: degenerazione, sedia a rotelle, non sarò più in me, starò male, morirò. La mia vita è andata a nero con i pensieri per sei mesi buoni, direi. Il tempo che è passato tra la prima risonanza magnetica, la ricerca di un neurologo e di uno staff cui fare riferimento, le altre analisi, fino alla decisione sulla terapia da scegliere. Poi, dico la verità, dal momento in cui ho iniziato la terapia è stato tutto facile.

 

Bianco e nero, facile e difficile si sono intrecciati, insomma.

 

Improvvisamente mi sono trovata di fronte all’imprevedibilità della malattia, qualcosa che era assolutamente al di là del mio controllo. Come capita a tanti nelle mie stesse condizioni, sono venuta a contatto con quelle che a me sembravano le ingiustizie del sistema sanitario, con la fatica per trovare la giusta strada per avere le risposte che servono. Contemporaneamente, ho incontrato persone incredibilmente virtuose, che mi hanno fatto pensare in questi anni che davvero la fatica del singolo è il cemento che costruisce la comunità. I medici, le ricercatrici, lo staff intero dell’Ospedale con cui sono stata a contatto mai una volta hanno risparmiato un’attenzione, una chiamata, un messaggio su Whatsapp, un controllo a un’ora impensata, un consiglio all’alba. Mi hanno fatto pensare e toccare con mano che questo tipo di incontri significa essere parte di una comunità.

 

Improvvisamente mi sono trovata di fronte all’imprevedibilità della malattia, qualcosa che era assolutamente al di là del mio controllo. Come capita a tanti nelle mie stesse condizioni, sono venuta a contatto con quelle che a me sembravano le ingiustizie del sistema sanitario, con la fatica per trovare la giusta strada per avere le risposte che servono.

 

Al di là della grande attenzione dei singoli, che diritto di cura e quale sistema sanitario hai incontrato?

 

Credo che a Roma, nel Lazio, la situazione organizzativa stia di gran lunga peggiorando. Quest’anno mi sono trovata ripetutamente a sentirmi ripetere che i posti in convenzione (per la riabilitazione  Ndr). erano finiti e che avrei potuto riprovare il mese successivo. Dunque abbiamo un grande problema legato al ‘rispetto’ del sistema sanitario che è il risultato di un patto tra il cittadino e lo stato. Evidentemente qualcuno ha tradito se è vero, almeno per la mia esperienza, che non ci sono posti e cure per tutti quelli che ne avrebbero diritto e bisogno.

 

Se dovessi realizzare un’altra inchiesta sul mondo della SM dove andresti a indagare?

 

Indagherei sulla percezione delle persone, perché questa è un’educazione che secondo me ancora manca completamente in Italia. Probabilmente, anzi sicuramente, questa consapevolezza mancava anche a me prima di avere questa diagnosi di malattia. Noi probabilmente diamo sempre per scontato che ci sia una cosa comune, un servizio universale per la salute. Invece non dobbiamo dimenticarci che questo sistema sanitario di protezione non è per nulla scontato che ci sia. In tanti paesi del mondo non c’è. Credo che dobbiamo avere rispetto, pretendere molto da chi è custode del patto che ha dato vita al sistema sanitario nazionale. Ma di quel patto noi come singoli dobbiamo avere cura. Dobbiamo riuscire a usare ma non ad abusare di questo sistema, nella consapevolezza di essere davvero fortunati ad averlo. Io ogni volta che vado alla farmacia territoriale a ritirare la terapia penso a quanto sono fortunata a vivere in un Paese dove una risonanza magnetica, che costerebbe centinaia o migliaia di euro, è pagata con le tasse di tutti.

 

Tornando a te, se vuoi, qual è il più grande cambiamento che la SM ha portato a una vita sempre in partenza come la tua?

 

Ha cambiato radicalmente il mio rapporto con il tempo. Tutta la fretta che avevo nel fare delle cose è stata spazzata via. Devo adattarmi al fatto che ci siano dei momenti in cui il mio corpo semplicemente non ce la fa a fare delle cose e quindi si deve fermare. E il rispetto di questa necessità di fermarmi, ora dico una parola che sembrerà una bestemmia, è in qualche modo non voglio dire un dono ma un insegnamento, è imparare ad ascoltare il tuo corpo anche nei suoi limiti.

 

A una giovane mamma con SM che ha un bambino, proprio come te, che messaggio manderesti?

 

Questa malattia ha insegnato a me che non bisogna avere paura di chiedere aiuto e di dire: non ce la faccio. Verbalizzare un momento di fragilità è già un pezzo della cura. Ammettere di avere energie limitate, cosa che vale per tutti anche quando non siamo malati, è già il primo passo per stare meglio. Dico una banalità ma davvero questa malattia mi ha insegnato il valore radicale dell’ottimismo ed è importante nella relazione anche con mio figlio. Oggi sto bene e allora possiamo correre, giocare, andare sui prati, giocare a calcio. E io ottimisticamente voglio credere che lo potrò fare anche tra vent’anni, perché la ricerca ha fatto passi da gigante.

 


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L'autrice

Francesca Mannocchi è giornalista freelance e collabora con testate tra cui L'Espresso, Stern, Al Jazeera English, The Guardian, The Observer. Ha realizzato reportage in Siria, Iraq, Palestina, Libia, Libano, Afghanistan, Egitto, Turchia. Ha vinto il Premio Giustolisi con un'inchiesta sul traffico di migranti e sulle carceri libiche e il prestigioso “Premiolino 2016”. Con il fotografo Alessio Romenzi ha diretto il documentario “Isis, Tomorrow” presentato alla 75a Mostra internazionale del Cinema di Venezia. Nel 2019 ha pubblicato “Io Khaled vendo uomini e sono innocente” (Einaudi) e “Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi" (Robinson –Storie di questo mondo). Nel 2018 ha ‘raccontato’ di avere la sclerosi multipla su L’Espresso.