In occasione del Congresso annuale FISM incontriamo Maria Pia Abbracchio, Professore Ordinario di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano responsabile del progetto di ricerca dedicato alle strategie rimielinizzanti innovative per la sclerosi multipla. In questa intevista ci racconta un importante progetto di ricerca finanziato tramite bando FISM
Un progetto di ricerca sulla sclerosi multipla, finanziato con il bando FISM 2010, ha raggiunto esiti importanti, che hanno portato la Fondazione Italiana Sclerosi Multipla e l'Università di Milano a individuare e a brevettare la proprietà intellettuale di tre famiglie di molecole su cui lavorare per la realizzazione di nuove terapie per la SM. Per approfondire il valore di un percorso che, partito dalla ricerca di base, punta ad arrivare alla fase clinica abbiamo intervistato la Professoressa Maria Pia Abbracchio la responsabile del progetto «Strategie rimielinizzanti innovative per la sclerosi multipla: focus su GPR17, nuovo recettore coinvolto nel differenziamento ologodendrocitario».
Di cosa si occupa, Professoressa Abbracchio?
«Mi sono laureata parecchi anni fa in farmacia, con una tesi in neuro psico-farmacologia e ho conseguito un dottorato in Medicina Sperimentale. Ho sempre lavorato sui farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, con particolare interesse nell’ultimo decennio ai farmaci neuro-riparativi, che possano aiutarci a migliorare gli esiti di malattie traumatiche, ischemiche o demielinizzanti del sistema nervoso come appunto la sclerosi multipla».
Come è nato l’interesse per la sclerosi multipla?
«Da sempre mi occupo di una classe di molecole endogene, le purine, che agiscono su recettori presenti sulle cellule del sistema nervoso noti, appunto, come recettori purinergici. Le purine sono prodotte dal nostro cervello e di fatto ci proteggono da lesioni e aiutano a riparare danni del sistema nervoso. Da qui è nato l’interesse per la cura della sclerosi multipla».
Cosa è il recettore GPR17? Come e quando l’avete scoperto?
«Una decina di anni fa stavamo cercando di identificare nuovi recettori purinergici che non fossero ancora stati studiati, e siamo arrivati a clonare GPR17, ad identificarne la struttura molecolare, e a dimostrare che era capace di rispondere sia alle purine sia ad un’altra famiglia di molecole di segnalazione, anch’esse rilasciate dal cervello quando c’è un danno. Questa osservazione ci aveva molto interessato, facendoci ipotizzare che GPR17 potesse partecipare ad eventi di riparazione, proprio perché poteva essere attivato dalle sostanze rilasciate endogenamente nel cervello quando c’è una lesione».
Come è proseguita questa ricerca?
«Abbiamo indagato esattamente su quali cellule nel cervello si trovasse il GPR17. E ci siamo accorti con nostra grande sorpresa che questo recettore si trova soprattutto su una cellula che si chiama precursore oligodendrogliale, cioè la cellula che poi maturando genera la guaina mielinica. È una cellula simil-staminale, normalmente presente allo stato quiescente nel cervello adulto; quando c’è un danno, questi precursori vengono reclutati e iniziano a differenziarsi diventando oligodendrociti maturi che producono la guaina mielinica. Abbiamo allora pensato che GPR17 avrebbe potuto anche avere un ruolo nel favorire il processo differenziativo delle cellule simil-staminali su cui si trova».
E dunque?
«Nelle fasi successive della ricerca abbiamo dimostrato che GPR17, se viene attivato con i suoi ligandi endogeni, fa partire il processo differenziativo. All’inverso, abbiamo osservato che andando a bloccare questo recettore con molecole di tipo antagonista, che cioè ne contrastano l’azione naturale, la cellula simil-staminale non diventa mai un oligodendrocita maturo. Siamo dunque portati a ipotizzare che andando a stimolare in maniera propria questo recettore in una lesione demielinizzante si possa promuovere la formazione di nuove cellule mielinizzanti, che riparino la lesione e facilitino quindi il ripristino della comunicazione fra neuroni».
Senza cadere nel rischio di creare illusioni, potremmo dire che il GPR17 è un bersaglio terapeutico di un possibile intervento farmacologico che attivi processi riparativi del danno della mielina tipico della SM?
«La scoperta della presenza di queste cellule simil-staminali nel cervello adulto ci dice che verosimilmente hanno una funzione importante, ossia il loro scopo è quello di rinnovare la mielina che si deteriora e che, teoricamente, le possiamo reclutare quando c’è un danno, cercando di spingerle il più possibile a produrre nuova mielina. Però c’è anche l’evidenza che in condizioni di danno la rimielinizzazione è scarsa. Questo ci dice che ci sono fattori locali, probabilmente di tipo infiammatorio, che interferiscono con il naturale processo di rimielinizzazione».
Se il cervello fosse in grado di attivare sempre processi di rimielinizzazione efficace la sclerosi multipla non si svilupperebbe mai nelle forme più gravi?
«Ci sarebbero inizi di malattia che verrebbero riparati appena prodotti. L’idea che mi sono fatta in trent’anni circa di lavoro sulle malattie neurodegenerative è che in realtà una riparazione avviene già normalmente e che molte malattie, all’inizio vengono molto ben riparate in modo naturale. Poi arriva un momento in cui la capacità di compensazione del nostro cervello è insufficiente, e a quel punto la malattia compare nella sua fase sintomatica, che è la più grave».
In questo lungo percorso come interviene la collaborazione dell’Università con FISM?
«Stiamo lavorando in stretto concerto con FISM per capire come mai GPR17 non funziona bene nella sclerosi multipla. Secondo noi il recettore è sregolato quando compare la SM, ossia c’è qualcosa nell’ambiente infiammatorio della lesione che gli impedisce di funzionare bene».
Se si riuscisse a capire come avviene questa sregolazione, poi si potrebbe intervenire per migliorare l’attivazione di GPR17?
«È proprio quello che stiamo provando a definire. Per portarci avanti nell’indirizzare il recettore a generare mielina, sempre insieme con FISM abbiamo individuato una serie di famiglie chimiche di composti attivi su GPR17. E insieme li abbiamo brevettati. Queste molecole sono ligandi del recettore. Per il momento abbiamo brevettato la proprietà intellettuale di famiglie ampie di ligandi, e non solo di una specifica molecola. Anche perché, ora che stiamo iniziando a sviluppare queste molecole, non sappiamo quale sia la migliore in assoluto, ossia la più efficace. Abbiamo scelto di brevettare più famiglie chimiche proprio per prevenire eventuali insuccessi e consentirci una ricerca ad ampio spettro della molecola più promettente dal punto di vista terapeutico»
Come sono state identificate le famiglie di molecole capaci di legarsi al GPR17?
«In parte con un lavoro svolto simulando la struttura del recettore al computer e identificando con modalità informatiche quelle molecole che meglio interagiscono con il recettore. Inoltre, grazie ad un’indagine brevettuale svolta autonomamente da FISM, siamo arrivati alla conclusione che c’erano tre famiglie di molecole di notevole interesse come potenziali ligandi del recettore e, dunque, come possibili agenti rimielinizzanti».
Perché avete scelto di depositare un brevetto?
«Abbiamo coperto la proprietà intellettuale di queste molecole. Significa che solo noi con FISM le potremo sviluppare, e questo è molto importante per la garanzia dei pazienti. Il brevetto congiunto FISM - Università di Milano è solo un punto di partenza. C’è ancora molto lavoro da fare, perché all’interno di queste tre famiglie chimiche piuttosto ampie dovremo individuare le molecole più interessanti, le dovremo saggiare e testare, in modelli in vitro e in modelli in vivo di malattia per arrivare a definire con sicurezza quelle con le caratteristiche migliori per essere somministrabili ad un paziente».
L’interesse fondamentale che indirizza questa ricerca è arrivare al paziente. Come?
«Diciamo che questo brevetto è la prima pietra della costruzione di una cattedrale. È l’inizio di un lungo processo che compiremo selezionando le molecole più promettenti. Poi probabilmente avremo bisogno del contributo delle aziende farmaceutiche per sviluppare la vera e propria fase clinica della ricerca, che è anche la più costosa. Anche per questo il brevetto era un passaggio fondamentale: nessuna azienda farmaceutica potrebbe mai essere interessata alle nostre molecole se non fossero brevettate».
Perché?
«Se una molecola di potenziale interesse terapeutico non viene brevettata, dal punto di vista applicativo è perduta. Sarebbe come buttarla nella spazzatura, perché chiunque potrebbe produrla e dunque nessuna azienda, per quanto eticamente attenta, avrebbe un interesse economico a svilupparla. Invece con il brevetto è come se avessimo messo in cassaforte qualcosa di molto prezioso per il paziente. Qualcosa che non è ancora pronto per essere estratto dalla cassaforte e utilizzato subito dalle persone, ma che noi speriamo possa essere pronto in un periodo di tempo ragionevole».
Questa operazione di brevetto è dunque uno strumento innovativo perché consente di mettere insieme gli interessi di un’Associazione non profit come AISM, di un ente di ricerca pubblico come l’Università e di un ente di ricerca profit come una casa farmaceutica. Vuol dire che ognuno potrà perseguire il proprio obiettivo convergendo sull’interesse finale delle persone ad avere cure innovative?
«Con questo innovativo modello operativo si riescono ad accomunare tre possibili partner nel comune interesse di trovare una cura, con compiti e ritorni precisi per ciascuno. L’Università avrà il compito di caratterizzare sempre di più con precisione le molecole nei modelli in vitro e in vivo che servono per arrivare all’uomo. FISM accompagnerà questo processo stadio per stadio e l’industria farmaceutica poi aiuterà a svolgere gli studi clinici, che rappresentano la parte più costosa. A quel punto, infatti, la molecola migliore tra quelle individuate andrà sperimentata su volontari sani per gli studi di sicurezza e poi sui pazienti per gli studi di efficacia, secondo le tre fasi tipiche della ricerca clinica».
Questo significa usare la propria ricerca di base non profit per indirizzare effettivamente la ricerca clinica del mondo profit.
«Con questa partnership tra un ente non profit privato come FISM e uno pubblico come l’Università noi abbiamo esattamente l’opportunità di seguire e indirizzare tutte le fasi della ricerca per arrivare velocemente a nuove terapie, ovviando al potenziale rischio, in cui incorrono molte molecole promettenti, di essere dimenticate per logiche commerciali che non sono necessariamente legate alle necessità di cura delle persone con SM. Se per una ricerca ci volesse troppo tempo, se i tempi previsti facessero lievitare il costo dell’investimento, una casa farmaceutica potrebbe scegliere di investire su altre patologie magari più diffuse, o su altre molecole che presentassero strade di più rapida conclusione».