La riabilitazione può essere potenziata da nuovi strumenti che aiutano la plasticità sinaptica. Al San Raffaele hanno usato un casco speciale che produce campi magnetici e agisce in profonditià. L'intervista a Letizia Leocani
Alla recente conferenza internazionale dell'IPMSC (Milano, 7 e 8 febbraio 2013) - che ha visto incontrarsi ricercatori provenienti da tutto il mondo per discutere del futuro delle terapie per le forme progressive di sclerosi multipla - uno dei temi di maggior interesse è stato sicuramente quello locomotorio. Come ha sinteticamente evidenziato il professor Giancarlo Comi, membro dello Steering Committee dell’IPMSC: «dalle presentazioni della Conferenza è emerso chiaramente come l’attività fisica, l’esercizio, sia di tipo generale, sia focalizzato su un aspetto ben preciso, si riveli di grande importanza non solo per il vantaggio che dà sulla struttura corporea interessata dall’esercizio, sul rimaneggiamento organizzativo del cervello che avviene in base all’esercizio, ma anche perché l’attività motoria è fonte della produzione di sostanze ad azione neurotrofica – è stato citato da più parti il BGNF, Brain NerveGrowthFactor -, che chiaramente protegge le cellule. In qualche modo forse i nostri vecchi hanno sempre avuto ragione: oggi sappiamo che anche per le persone con SM muoversi può fare bene anche perché protegge dalla neuro degenerazione. Questo è già un punto di partenza nuovo: fino a pochi anni fa si riteneva che l’attività fisica avesse più controindicazioni che utilità per le persone con SM avanzata. Ora né chiaro che bisogna studiare con molta attenzione gli effetti che l’attività motoria e riabilitativa genera».
Rispetto a questo ambito di ricerca, alla conferenza era presente anche la dottoressa Letizia Leocani, responsabile del centro MAGICS (MAGnetic Intra Cerebral Stimulation), ricercatore presso l’Istituto di Neurologia Sperimentale, Ospedale San Raffaele di Milano. Di recente ha curato una ricerca sperimentale legata proprio alle difficoltà nel cammino, uno dei problemi principali per le persone con sclerosi multipla, in particolare con la forma progressiva. Lo studio si intitola: Walking improvement after deep rTMS with H-coil associated with rehabilitation in patients with progressive multiple sclerosis: a randomized, controlled, double blind study». Allo studio hanno collaborato anche Arturo Nuara, Anna Formenti, Paolo Rossi, Filippo Martinelli Boneschi, Abraham Zangen, Mauro Comola e lo stesso Giancarlo Comi.[1]
L’abbiamo intervistata per approfondire con lei il contenuto della sua ricerca. Chiaramente questa ricerca è solamente un esempio tra altri, che non intende esaurire e nemmeno riassumere il dibattito scientifico dell’IPMSC Conference su questi temi. Possiamo però, attraverso questo esempio, capire qualche tratto degli importanti passi che la ricerca in riabilitazione sta effettuando per il trattamento delle forme progressive di sclerosi multipla.
Quali lesioni della SM sono alla base del disturbo motorio che tocca molti pazienti?
«Alla base del disturbo vi sono le lesioni che colpiscono le vie nervose che dal cervello inviano i comandi motori attraverso il midollo spinale».
Come si interviene attualmente per migliorare la deambulazione delle persone con SM?
«Si utilizzano terapie sintomatiche per migliorare la conduzione nervosa e ridurre il senso di rigidità degli arti inferiori. Non sempre queste terapie, però, hanno un’efficacia ottimale, mentre possono presentare effetti collaterali. Per questo motivo, insieme ai trattamenti sintomatici, si utilizza la fisioterapia: è sicuramente importante, ma i suoi effetti hanno una durata limitata nel tempo».
Esistono allora ulteriori tecniche attraverso cui si potrebbe migliorare l’efficacia o la durata degli effetti degli attuali trattamenti per le difficoltà motorie?
«La nostra sperimentazione ha provato a rispondere esattamente a questa domanda».
Quali gli aspetti di novità del vostro studio?
«Quello da noi svolto è il primo studio di fase due che utilizza la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva, effettuata con un casco speciale, in pazienti con disturbi nel cammino. Alla base ci sono le evidenze già presenti in letteratura, secondo le quali questo tipo di stimolazione può potenziare la plasticità sinaptica del cervello, la sua capacità di riadattarsi al danno neurologico».
Perché il casco per la stimolazione magnetica transcranica rappresenta una novità nei trattamenti riabilitativi?
«Per arrivare a riattivare gli arti inferiori occorre una stimolazione magnetica che arrivi in profondità, sotto i 5 cm dalla superficie del cranio, nella parte di corteccia motoria che si addentra verso il corpo calloso. Le macchine di stimolazione magnetica tradizionale non hanno potenza sufficiente per arrivare fino a quel livello. Noi utilizziamo uno strumento che ha la possibilità di generare campi magnetici che raggiungono anche una certa profondità, perché la conformazione dei cavi elettrici che generano il campo è tridimensionale, non piatta come negli strumenti tradizionali che si usano in ambito diagnostico, ad esempio per i potenziali evocati motori. È un’evoluzione tecnologica disponibile, relativamente recente, messa a punto nel NIH (National Institute of Health, USA), che ha consentito di disporre di questa terapia».
Come si è svolto il vostro studio?
«Ventuno persone con sclerosi multipla, mentre erano sottoposte a un ciclo di riabilitazione intensiva presso la Neuroriabilitazione del San Raffaele, hanno ricevuto stimolazioni transcraniche con il nostro casco per tre settimane. Dopo la riabilitazione quotidiana, queste persone venivano sottoposte a trattamenti di circa 15 minuti con gli stimolatori a forma di casco. Metà di loro hanno effettivamente ricevuto la stimolazione, l’altra metà riceveva solamente il rumore del trattamento e una stimolazione superficiale limitata alla cute. In questo modo potevamo verificare l’incidenza di un possibile effetto placebo e valutare se al termine del periodo ci fosse una differenza effettiva nelle abilità motorie tra chi aveva eseguito solamente la riabilitazione tradizionale con stimolazione apparente e chi era stato sottoposto a stimolazione transcranica cerebrale».
Che risultati avete misurato nei due diversi gruppi?
«Lo studio ha dato risultati positivi. Le persone sottoposte sia a riabilitazione che a stimolazione magnetica cerebrale hanno mostrato miglioramenti nella deambulazione, in termini di resistenza e velocità, maggiori di circa il 30% rispetto ai pazienti sottoposti solo a riabilitazione».
Come avete misurato i miglioramenti?
«All’inizio e al termine delle tre settimane di trattamento abbiamo sottoposto i pazienti a quello che è noto come «il test dei 6 minuti», nato per pazienti con patologie respiratorie. Serve a valutare la resistenza, ossia quanto sforzo le persone riescono a sostenere in un percorso prima di doversi fermare. Di fatto, hanno 6 minuti di tempo per percorrere il maggior numero di metri possibili. Il test è un mix di resistenza e velocità, dove la resistenza pesa di più proprio per via della durata di 6 minuti. La velocità, invece, è meglio misurata dal test dei dieci metri: si fanno percorrere ai pazienti dieci metri chiedendo di andare il più veloce possibile, e si misura quanto tempo ci impiegano. Questo secondo test ha evidenziato circa un 20% di maggiore miglioramento nel gruppo stimolato a livello cerebrale rispetto al gruppo che ha fruito solo di riabilitazione e stimolazione superficiale».
Che relazione esiste dunque tra riabilitazione e stimolazione magnetica transcranica?
«Riteniamo che la stimolazione magnetica possa potenziare i meccanismi di plasticità sinaptica che sono già attivati dalla riabilitazione. Per questo non abbiamo solo effettuato la stimolazione magnetica, ma l’abbiamo aggiunta alla riabilitazione».
Cosa significa potenziare la plasticità sinaptica?
«Quando il cervello subisce un insulto, un danno, tende a riadattarsi. Questa capacità si definisce plasticità sinaptica. Ora, ci possono essere fenomeni di plasticità positivi, che vanno nel senso del miglioramento della funzione. Ma anche ci possono essere fenomeni di plasticità mal adattativa. In questo secondo caso la disfunzione che si è creata può portare come effetto domino ad altri rimaneggiamenti. E questi, paradossalmente, possono portare a un ulteriore peggioramento, o sfavorire il recupero della funzione colpita».
E a questo punto interviene la riabilitazione?
«La neuroriabilitazione serve per indirizzare nella giusta direzione la plasticità neuronale, per consentire al cervello di riadattare nel modo migliore possibile la funzionalità delle le proprie abilità».
La stimolazione transcranica a cosa servirebbe, allora?
«A rafforzare l’effetto della riabilitazione. La riabilitazione, possiamo dire, fornisce la giusta direzione alla plasticità del cervello. Con la stimolazione si potenzia l’effetto che la riabilitazione dà, in modo che la persona padroneggi sequenze corrette e sia in grado di muoversi meglio. Se ci limitassimo, invece, a stimolare magneticamente l’area che controlla i muscoli degli arti inferiori, e se il soggetto non avesse seguito una riabilitazione che ne favorisca l’utilizzo nella sequenza corretta, potremmo magari rischiare di aver potenziato sequenze scorrette di attivazione. E potremmo finire per indurre una plasticità mal adattativa. Viceversa, integrando riabilitazione e stimolazione possono produrre ottimi miglioramenti nella deambulazione».
Giuseppe Gazzola
Con questi approfondimento si chiude un ciclo di interviste incentrate sulla ricerca sulle forme progressive di SM, pubblicate in concomitanza con la conferenza internazionale dell'IPMSC, che visto il contributo di Paola Zaratin, Marco Salvetti, Maria Pia Abbracchio e Olga Ciccarelli.
Note
[1] Un abstract di questo studio è stato presentato al Congresso ECTRIMS 2012: [poster 162], consultabile collegandosi a: [http://www.posters2view.com/ectrims2012/lookup_view.php?word=Leocani&where=authors&return=authorindex.php%3Falpha_index%3D11%26page%3D2