Nella foto: Paolo Muraro
Paolo Muraro è professore associato in Neuroimmunologia presso l'Imperial College di Londra. Il suo lavoro si concentra soprattutto sui meccanismi di azione delle terapie immunologiche nella sclerosi multipla, in particolare i meccansimi alla base dell'efficacia terapeutica di alcune ofrme di terapia, come le cellule staminali ematopoietiche. Invitato all'ECTRIMS 2011 di Amsterdam, presenta diversi lavori. Nella nostra intervista ci parla proprio dei progressi della ricerca sulla cellule staminali.
Di cosa si occupano gli studi che presenta all’ECTRIMS, e come si collocano nel quadro globale della ricerca sulla SM?
«Tra le sei comunicazioni che portiamo a ECTRIMS, penso sia utile focalizzarsi su quella dedicata alle cellule staminali ematopoietiche. Inoltre segnalerei un secondo studio interessante sempre sulle staminali ematopoietiche, ma a seguito di trattamento con Natalizumab».
Partiamo dal primo studio: dal punto di vista scientifico qual è il contributo della ricerca che presentate?
«Lo studio che presentiamo si propone di chiarire alcuni dei meccanismi che sono alla base dell’azione del trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche. In particolare abbiamo visto che diversi protocolli per il trattamento del trapianto autologo ematopoietico hanno effetti differenti su particolari compartimenti del sistema immunitario. Non si può dunque parlare di un unico protocollo. E allora, dato che le differenze sono importanti e significative, e non sappiamo quali componenti dei cambiamenti che osserviamo sono rilevanti per il meccanismo terapeutico, ci siamo proposti di confrontare questo trattamento fatto con due schemi differenti, che utilizzano diversi farmaci per il trattamento immunosoppressivo utilizzato per preparare all’autotrapianto. Abbiamo visto in particolare che uno dei due protocolli studiati causa un’espansione significativa delle cellule regolatorie che sono ritenute essere protettive nella sclerosi multipla».
In sostanza, avete confrontato due protocolli per l’immunosoppressione che precede il trapianto, e in uno dei due avete riscontrato un vantaggio sensibile.
«Sì, uno dei due aiuta a produrre cellule regolatorie rispetto alla SM ed elimina in modo pressoché totale un altro tipo di cellule considerate dannose, le cellule pro-infiammatorie che secernono interleuchina 17, una delle interleuchine infiammatorie cui si dà più attenzione negli anni recenti. Abbiamo dunque visto che questi due protocolli, uno dei quali tra l’altro comprende anche l’alemtuzumab, un farmaco che viene utilizzato da solo per la SM, ha un effetto più vigoroso nell’eliminazione di cellule dannose e sull’espansione di cellule regolatorie».
Quale il vantaggio reale che questa ricerca può avere sulla vita delle persone con SM?
«Quello che si tradurrà in un vantaggio pratico è l’ottimizzazione di un protocollo di autotrapianto con cellule staminali ematopoietiche. Stiamo capendo quali sono i componenti essenziali o migliori da utilizzare, qual è il protocollo che ottiene gli effetti terapeutici più efficaci. Sarà poi compito dei trial clinici studiare e valutare se il protocollo che stiamo studiando dal punto di vista immunologico sarà anche migliore dal punto di vista clinico».
Per quali persone si utilizza l’autotrapianto di cellule ematopoietiche?
«Questa è una terapia di salvataggio, che viene riservata a casi estremamente attivi che non hanno risposto alle terapie di prima e di seconda linea, ossia i vari interferoni, il copolimero, il natalizumab. Per le persone che sviluppano forme più aggressive di SM si sta cercando di sviluppare protocolli più precoci: fino ad ora hanno partecipato a questi studi pazienti in fasi avanzate, ma per essere davvero efficace questo trattamento andrebbe applicato in fasi relativamente precoci».
Quindi state cercando di anticipare la possibilità di utilizzare il trapianto di cellule ematopoietiche?
«Sì, in particolare si stanno sviluppando protocolli con intensità più leggera. Uno dei protocolli studiati, elaborato all’Università di Genova dal Professor Mancardi e collaboratori, è detto «protocollo light» e si propone di rendere più sicuro e tollerabile il trattamento diminuendo l’intensità di immunosoppressione. Uno studio pilota di tale protocollo è in fase di completamento».
Che messaggio manderebbe alle persone sullo stato globale della ricerca sulla SM, cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni?
«La ricerca farmacologica, in particolare quella finalizzata a farmaci biologici, ha già portato numerosi nuovi farmaci all’applicazione clinica o a trial già di fase III e quindi di prossima introduzione clinica, ossia di prossimo utilizzo per le persone. C’è stata un’espansione eccezionale delle terapie in questi ultimi anni. Ora la nuova era, la prossima fase non consisterà solo nell’utilizzazione più diffusa di queste nuove terapie, ma verrà anche dalla ricerca nell’ambito delle staminali, dove sia a livello di cellule ematopoietiche, sia a livello di mesenchimali e nel futuro anche di cellule staminali neurali, stiamo facendo grossi passi in avanti. Anche se non saranno introdotte in clinica dopodomani, nell’arco dei prossimi cinque anni ci saranno a mio avviso risultati concreti che ne permetteranno una successiva introduzione in ambito clinico e terapeutico. Saremo in condizioni di stabilire qual è il ruolo delle staminali nell’armamentario terapeutico per contrastare la SM».
Parlava di un secondo studio rilevante sulle staminali ematopoietiche, con utilizzo del Natalizumab.
«Sì, stiamo vedendo come le cellule staminali ematopoietiche che vengono dal midollo osseo vengono modificate in pazienti che utilizzano il Natalizumab. Altri studi hanno visto che il Natalizumab aumenta il numero di cellule staminali ematopoietiche in circolo. Nella ricerca che presenteremo a ECTRIMS abbiamo mostrato che nei primi mesi della terapia con Natalizumab vi è un gruppo di pazienti in cui avviene un consistente aumento del numero di cellule ematopoietiche circolanti. Ebbene, proprio costoro sono i pazienti che poi ottengono una risposta migliore al farmaco».
L’aumento di staminali ematopoietiche è dunque un indicatore di efficacia della terapia con Natalizumab?
«Sono risultati ancora preliminari e dunque da confermare; ma in effetti questo aumento sembra un biomarcatore di efficacia. Inoltre una seconda cosa da capire nel proseguire lo studio è se questo aumento di staminali ematopoietiche nella circolazione sanguigna significa che queste cellule possano avere un potenziale di riparazione. Visto che alcuni pazienti che utilizzano il Natalizumab non solo stanno bene, ma migliorano, vorremmo capire se questo aumento di staminali possa avere a che fare con qualche forma di riparazione neurale. Non lo sappiamo, lo vogliamo andare a vedere».
Oggi sappiamo che le staminali attivano meccanismi di autoriparazione nell’organismo.
«Esattamente: le staminali possono promuovere un’attività spontanea di autoriparazione, un’autoriparazione a fresco, diciamo, rispetto al danno neurologico appena verificatosi. Mentre la riparazione della lesione ormai stabilizzata, di lunga data, al momento sembra meno probabile».
Quindi le terapie con staminali dovrebbero entrare soprattutto nell’utilizzo precoce, non rispetto a danni stabilizzati da molti anni.
«Anche se a tutti, medici e pazienti, sembrerebbe meraviglioso poter riparare il danno consolidato, sulla base delle conoscenze attuali non sembra plausibile che questo si possa ottenere semplicemente infondendo delle staminali. Peraltro la stessa effusione di staminali, se effettuata in concomitanza con una lesione avvenuta da poco, potrebbe generare un’azione di autoriparazione veramente efficace».
E per le forme progressive si può immaginare di utilizzare terapie che prevedano l’utilizzo di staminali?
«Domanda difficile. Al momento non sembra probabile che le forme progressive avanzate possano essere efficacemente curate con terapie basate solamente su cellule staminali. Il punto principale è cercare di bloccare l’evoluzione da SM remittente a forme progressive. In questo senso abbiamo anche dati ottenuti in collaborazione col gruppo di George Ebers, con una serie di studi sulla storia naturale della SM. Analizzando un grande database di storie di persone con SM non trattata, cioè di pazienti seguiti negli anni prima che fossero disponibili trattamenti immunomodulatori, si vede che l’elemento determinante per la progressione della disabilità è l’entrata della fase progressiva. Il fatto di avere molte ricadute conta relativamente poco in ambito di storia naturale: questo non vuol dire che i trattamenti che sopprimono le recidive non possano essere efficaci, perché questi trattamenti oltre a limitare le ricadute sopprimono anche l’infiammazione del sistema nervoso centrale, che è ciò che probabilmente determina la progressione. L’obiettivo terapeutico principale di tutte le terapie, non solo di quelle con staminali, dovrebbe essere quello di evitare che le forme di sclerosi multipla recidivante-remittente (RR) diventino progressive. Anche se è un problema ancora irrisolto, questo è ormai identificato come l’obiettivo terapeutico primario ed è un cambio di paradigma. Insomma, noi ora sappiamo sopprimere le recidive grazie ai farmaci che abbiamo messo a punto. Ma quello che dobbiamo andare a vedere con gli studi futuri è se questi farmaci comunque bloccano anche l’insorgere della forma progressiva».
Quanto tempo ci vorrà per riuscirci?
«Si tratta di mettere a punto studi clinici che permettano l’osservazione del momento in cui si verifica l’insorgenza della forma progressiva. Non possiamo dunque continuare a fare studi di sei mesi o di un anno per vedere con risonanza magnetica se il nuovo farmaco sopprima le forme remittenti senza poi andare a vedere se lo stesso farmaco impedisce che nascano forme progressive. Sono studi lunghi almeno cinque anni. Su Neurology è appena uscito un nostro studio (Age and disability accumulation in multiple sclerosis. Scalfari A, Neuhaus A, Daumer M, Ebers GC, Muraro PA.
Neurology. 2011 Sep 27;77(13):1246-52. Epub 2011 Sep 14.), che mostra come l’età in cui avviene la conversione alla forma progressiva è sempre pressoché la stessa, a prescindere dal momento in cui è stata diagnosticata la SM. Vuol dire che a una certa età, precisamente tra i 40 e i 50 anni, i meccanismi endogeni di riparazione della mielina danneggiata dalla sclerosi multipla iniziano a fallire il proprio compito. Tutto questo e’ da intendersi in termini statistici e vi e’ naturalmente ampia variazione nella evoluzione in singoli individui».
Questa tra i 40 ei 50 sarebbe l’età spartiacque in cui si può passare a forme progressive?
«Sì, la maggior parte delle persone che sviluppano forme progressive di SM lo fanno in questa fascia di età, sia che abbiano la SM da tanto tempo sia che sia stata loro diagnosticata da poco. Ribadisco che parliamo in termini statistici e non in senso individuale. Quindi per fare studi clinici sulle forme progressive bisogna ingaggiare persone vicine ai 40 anni. Se tramite studi di questo tipo si riuscirà a prevenire questo passaggio, si risolverà un problema enorme».
Guarda la videointervista di Paolo Muraro in occasione dell'ultimo Congresso FISM (maggio 2011)