Il d. lgs. n. 216/2003 (che ha recepito la direttiva 2000/78/CE) ha l’obiettivo di garantire l’attuazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro (sia nel settore pubblico sia nel settore privato), disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione.La nozione di discriminazione adottata dal legislatore è piuttosto ampia.
Si fa riferimento alla discriminazione diretta:
«quando (...) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga» (d. lgs. 216/2003 art. 2, 1° co., lett. a),
Per esempio: non assegnare un lavoratore a mansioni superioriperché fruisce dei permessi della legge 104/1992 per assistere un familiare con handicap con connotazione di gravità.
Si fa, invece, riferimento alla discriminazione indiretta:
«quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone (…) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (d. lgs. 216/2003 art. 2, 1° co., lett. b).
Per esempio: stabilireun premio di produttività che si basi esclusivamente sul numero di giornate di presenza sul luogo di lavoro.
Sono, altresì, considerate come discriminazioni le «molestie ovvero quei comportamenti indesiderati (…) aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (d. lgs. 216/2003 art. 2, 3° co.).
Il lavoratore che si ritenga discriminato può rivolgersi a un avvocato esperto di diritto del lavoro e verificare la sussistenza dei presupposti per agire giudizialmente al fine di ottenere tutela dei propri diritti.
Se lo desidera, il lavoratore può delegare l’azione contro il datore di lavoro ad una rappresentanza locale di un sindacato dei lavoratori.
Nel caso venga accertata la sussistenza di una discriminazione, il datore di lavoro sarà condannato al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (nozione in cui è compreso il danno morale soggettivo, il danno esistenziale e il danno biologico nel caso in cui a causa del trattamento di cui è rimasto vittimail lavoratore subisca alterazioni della sua integrità fisica e psichica medicalmente accertabili). Il giudice ha, altresì, il potere di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti, oltre alla pubblicazione delle sentenza a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano a tiratura nazionale.
Ultimo aggiornamento giugno 2014