Si è svolto recentemente a Stoccolma il congresso scientifico ECTRIMS, il più grande e importante meeting europeo di ricercatori provenienti da tutto il mondo e impegnati nella sclerosi multpla. Come ogni anno, nelle fasi finali dell'evento, la sessione highlights raccoglie gli studi valutati più promettenti presentati al consesso. Si tratta di dati su studi in corso, che devono ancora essere confermati nelle pubblicazioni. Qui presentiamo le ricerche focalizzate sulla sicurezza .
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un proliferare di nuove molecole per il trattamento della sclerosi multipla, soprattutto per la forma recidivante-remittente. Farmaci via via più specifici e potenti che hanno permesso di ottenere risultati importanti in termini di rallentamento della progressione della disabilità.
L'efficacia porta con sè, spesso, anche una maggiore frequenza di effetti collaterali che però, se conosciuti, possono essere gestiti al meglio. La ricerca lavora anche in questa direzione, per cercare di fornire alle persone con sclerosi multipla il miglior trattamento possibile, come dimostrano diverse ricerche presentate nel corso del congresso europeo del comitato per lo studio della sclerosi multipla (ECTRIMS) che si è svolto a Stoccolma.
Fra le terapie introdotte negli ultimi anni ci sono quelle che hanno come target le cellule B del sistema immunitario: lo scopo è quello di modulare, se non azzerare, l'azione d queste cellule responsabili dell'attacco autoimmune nei confronti della mielina. Ma le cellule B assolvono anche a compiti importanti, per esempio la produzione di Immunoglobuline IgG, gli anticorpi più diffusi nell'organismo umano che svolgono funzioni di difesa e smaltimento delle tossine batteriche.
Uno studio condotto da Susanna Hallberg dell'Istituto Karolinska Institutet di Stoccolma ha dimostrato che nelle persone con sclerosi multipla trattate con rituximab, molecola che colpisce le cellule B, il rischio di di ipogammaglobulinemia, cioè una diminuzione delle gammaglobuline nel sangue e quindi un maggior rischio di contrarre infezioni, è reale e ha colpito il 10-15% dei pazienti considerati. Ecco perché, come già accade per i pazienti reumatologici in trattamento con questo medicinale, bisogna sempre tenere sotto controllo i valori di queste immunoglobuline e valutare, dicono gli esperti, periodi di sospensione o di riduzione della dose. Proprio a causa di questo rischio anche gli sperimentatori di ocrelizumab, farmaco molto simile a rituximab, sono andati a vedere cosa succedeva nelle persone trattate. L'analisi presentata a ECTRIMS sottolinea come nello studio di fase III ORATORIO e della sua estensione open label (OPERA) l’incidenza di questa riduzione è stata bassa e i problemi si sono risolti con cure standard. Tanto che la maggior parte delle persone ha continuato il trattamento.
I medici devono considerare anche i livelli delle immunoglobuline M e A e controllare che non si abbassino troppo durante i trattamenti che colpiscono le cellule B, come fingolimod e natalizumab. Lo sottolinea una ricerca che ha preso in considerazione pazienti in cura con questo tipo di farmaci presso l'ospedale di Berna in Svizzera e l'ospedale universitario Eginition di Atene.
Particolare attenzione va fatta nel caso della leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), un complicazione rara ma grave del trattamento con farmaci come natalizumab o fingolimod. Ad oggi l'unico biomarker usato per scoprire e monitorare la PML associata alla somministrazione di natalizumab è la risonanza magnetica. Lo studio condotto da Floor Loonstra dell'Università di Amsterdam presentato a Stoccolma dimostra che in 4 pazienti su 5 i livelli della catena leggera dei neurofilamenti aumentano all’esordio della PML, concludendo quindi che si tratta di un potenziale biomarker e che il test dovrebbe essere affiancato all'analisi di immaging per monitorare la PML asintomatica.
Sempre sul fronte della prevenzione della PML, in alcuni casi si è visto che pazienti che passano da natalizumab a ocrelizumab/rituximab sviluppano questa complicanza una volta cambiata la terapia. Uno studio condotto da Ingrid Meini, dell'ospedale universitario di Monaco, ha valutato la presenza del DNA del virus JC nel liquido cerebrospinale dei pazienti. La presenza del virus è stata rilevata in 1 paziente sui 44 considerati che al momento dell'analisi non aveva segni di PML ma che ha sviluppato la malattia 5 mesi dopo. Questa analisi, concludono gli autori, dovrebbe essere quindi eseguita prima di passare a immunoterapie depletive.
Infine, un dato interessante viene da uno studio condotto su persone giapponesi: nella popolazione nipponica l'incidenza della PML è 10 volte superiore a quanto riportato nelle altre nazioni. La ricerca ha quindi chiarificato quali sono i geni e gli alleli associati a una maggior rischio di sviluppare la complicanza.
Si ricorda che queste informazioni riguardano ricerche in corso e non ancora pubblicate. Consigliamo di prendere ogni decisione riguardante le terapie con il proprio medico curante.