Non sappiamo ancora cosa esattamente scateni la sclerosi multipla (SM), perché alcuni tipi siano diversi dagli altri e la sfida alle forme progressive è ancora tutta da vincere. Ma guardando indietro, a quanto già è stato fatto, la ricerca su questa patologia è una storia densa di traguardi rincorsi e raggiunti. L'ultimo quarto di secolo ha completamente cambiato il panorama dei trattamenti contro la malattia: ha visto nascere e moltiplicarsi le opzioni terapeutiche, non senza ostacoli, fino ad arrivare oggi a una ampia gamma di farmaci approvati e terapie in fase di studio. A ricordare i passi compiuti nella cura della SM degli ultimi 25 anni è uno speciale di Nature Review Neurology . Una carrellata di pietre miliari in cui un posto importante è occupato anche dalla ricerca italiana sulla sclerosi multipla, da sempre sostenuta da AISM e la sua fondazione FISM.
Perché guardare indietro di 25 anni? Perché è agli inizi degli anni Novanta che inizia davvero la storia dei trattamenti contro la sclerosi multipla. Fino ad allora infatti le opzioni terapeutiche disponibili si limitavano a farmaci sintomatici. La mancanza di conoscenze sui meccanismi alla base della malattia e la grande variabilità con cui si presentava (e si presenta tutt'ora) nelle persone con sclerosi multipla hanno rappresentato a lungo un ostacolo per la ricerca di una cura, capire cosa la scatenasse era difficile. Intorno alla fine degli anni Novanta però, ricorda Nature Review Neurology, qualcosa comincia a cambiare: appare chiaro che il sistema immunitario gioca un ruolo importante nello scatenare la malattia e le sue riacutizzazioni. Una conoscenza che portò ricercatori e clinici a guardare al sistema immunitario come al bersaglio da colpire nella lotta alla sclerosi multipla.
Avremmo dovuto aspettare gli anni Novanta per vedere arrivare le prime terapie immunomodulanti, capaci di agire sulle anomalie del sistema immunitario, infiammazione compresa, che sono alla base della patologia, prima con l'approvazione dell'interferone beta (IFNb) e poi del glatiramer acetato. Farmaci per iniezione, che avrebbero dominato il panorama delle terapie contro la sclerosi multipla per un decennio e che ancora oggi giocano un ruolo centrale nelle strategie terapeutiche.
L'interferone e il glatimer acetato hanno dimostrato che si può combattere la malattia, se ne può modificare il decorso, riducendo le ricadute e anche la progressione della disabilità. Ma per quanto rivoluzionari hanno un'efficacia comunque limitata. Negli anni Duemila sono arrivate nuove opzioni terapeutiche a disposizione delle persone con SM, frutto della conoscenza sempre maggiore dei meccanismi alla base della sclerosi multipla. Il primo anticorpo monoclonale contro la SM (natalizumab) e quindi i primi farmaci orali (come il fingolimod, il teriflunomide e il dimetilfumarato) in modi diversi colpiscono tutti l'attivazione incontrollata del sistema immunitario nel cervello – per esempio bloccando la replicazione dei linfociti T, sequestrandoli nei linfonodi e impedendo che arrivino al sistema nervoso centrale – e pur avendo arricchito l'armamentario dei clinici la loro applicazione non è stata priva di problematiche. Come quelle che hanno riguardato il natalizumab, associato a casi di leucoencefalopatia multifocale progressiva, che portarono al suo momentaneo ritiro e a nuove norme di sicurezza e monitoraggio per la somministrazione del farmaco. O il caso del daclizumab, un altro anticorpo monoclonale che sarebbe arrivato in tempi più recenti, ritirato dal mercato perché collegato a effetti collaterali gravi come encefaliti e meningoencefaliti.
La disponibilità di terapie iniettabili, nuovi anticorpi monoclonali e farmaci orali negli ultimi anni ha richiesto abilità sempre maggiori da parte dei clinici nel prescrivere le terapie. Se fino a venti anni fa praticamente non esistevano trattamenti per una persona con SM, avere, da una parte, a disposizione più scelte con diverse modalità di somministrazione e, dall'altra, la variabilità della malattia e la sfida alla diagnosi precoce, hanno reso complessa la gestione della patologia. I dati disponibili sull'efficacia di diverse terapie a confronto, anche se limitati, e le informazioni che arrivavano dal real-world, hanno in parte aiutato, come conferma uno studio pubblicato da Nature che vede tra gli autori dalla Prof. Maria Trojano dell'Università di Bari. Capire quale farmaco prescrivere a quale persona, quale potrebbe essere più efficace e con meno effetti collaterali richiede competenze che non possono più essere solo del neurologo ma richiedono un team specializzato in strutture dedicate. Un modello di gestione della malattia in cui l'Italia ha fatto da apripista. Così come nella ricerca.
Tra i traguardi che hanno segnato la storia dei trattamenti della SM, accanto allo sviluppo di nuovi farmaci, sempre più mirati, ci sono anche le terapie cellulari. Rientrano in quelle che Nature Review Neurology chiama le nuove frontiere della sclerosi multipla: terapie, approvate o in fase di studio, che potrebbero segnare un nuovo corso nella lotta alla malattia, specialmente alle forme più aggressive, come quelle progressive. Così, accanto agli anticorpi monoclonali che colpiscono i linfociti B (a lungo ritenuti protagonisti minori della patologia) come ocrelizumab, il primo farmaco indicato per le forme recidivanti e progressive della malattia, e siponimod, che riduce la migrazione dei linfociti nel sistema nervoso centrale, trovano spazio anche i risultati incoraggianti provenienti dagli studi sulle cellule staminali.
In particolare, promettenti sono quelli che arrivano dal trapianto di staminali ematopoietiche, ricorda l’articolo pubblicato nel 2017 in Nature Reviews, che dimostrano l’eccellenza italiana sull’autotrapianto delle cellule staminali ematopoietiche e riflette quanto i ricercatori e clinici italiani abbiamo contribuito allo studio e al progresso di questa forma di terapia che ora va rapidamente avanzando nel resto del mondo, sia in trials clinici sia come opzione terapeutica per la sclerosi multipla (vedi Nature).
Viene citato lo studio multicentrico internazionale che ha visto la partecipazione di gruppi di ricerca Italiani, tra cui quello del Professor Gianluigi Mancardi dell’Università di Genova e Presidente del Comitato Scientifico AISM e del Prof. Paolo Muraro dell'Imperial College di Londra, il Prof. Riccardo Saccardi dell'Università degli Studi di Firenze, tra i massimi esperti in questo campo. La ricerca, pubblicata su Jama Neurology mostrava come a cinque anni dal trattamento in circa metà dei pazienti (incluse anche persone con SM secondariamente progressiva) non si osservavano peggioramenti dei sintomi o progressione di malattia.