Studiare i meccanismi che promuovono l’insorgere della sclerosi multipla è fondamentale per scoprire nuove terapie e migliori strategie di prevenzione. Una sfida non banale: la malattia è causata da molteplici variabili, sia genetiche sia ambientali, che singolarmente hanno un impatto contenuto sul rischio di ammalarsi, ma che combinandosi provocano l’insorgere della patologia. Solo conoscendo come agiscono questi fattori, e perché la loro alterazione porta allo sviluppo della malattia, sarà possibile sviluppare terapie sempre più efficaci. Uno strumento per ottenere queste informazioni è la genetica, come dimostrano gli studi condotti tra gli altri da Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Irgb-Cnr) e professore di genetica medica dell’Università di Sassari, che al congresso annuale della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla ha parlato delle ultime novità in questo campo.
Che ruolo ha oggi la ricerca sulla genetica della sclerosi multipla?
«Anche nel caso di patologie come la sclerosi multipla, in cui i geni contribuiscono solamente per un 20-30% al rischio totale, gioca comunque un ruolo fondamentale. A differenza di altri tipi di ricerche – come possono essere quelle osservazionali – gli studi di genetica forniscono informazioni certe: se qualcosa è scritto nei geni, abbiamo la sicurezza che si tratti di una causa, e non di una conseguenza, della patologia che stiamo studiando. In questo modo sono stati identificati circa 200 fattori di rischio genetici, porzioni del DNA in cui la presenza di determinate varianti geniche è associata a una maggiore probabilità di sviluppare la sclerosi multipla. E oggi a queste informazioni stiamo iniziando ad associare anche lo studio di variabili quantitative. Parametri come il livello di particolari cellule immunitarie presenti nell’organismo, che rappresentano quello che definiamo un fenotipo intermedio, un elemento misurabile che va a situarsi a metà strada tra i geni e lo sviluppo delle manifestazioni cliniche della malattia. Ed è così che queste ricerche diventano realmente interessanti, soprattutto nel caso di malattie poligeniche e multifattoriali come la sclerosi multipla».
Che informazioni otteniamo unendo questi due tipi di ricerche?
«Quando una stessa variante genica è associata sia al rischio di sviluppare la sclerosi multipla, sia a un qualche parametro quantitativo, allora possiamo comprendere in che modo quella sequenza di DNA contribuisca alla patogenesi della malattia. Mettiamo ad esempio che un gene collegato a un maggior rischio di soffrire di sclerosi multipla sia legato anche a una maggiore produzione di determinate cellule immunitarie. Beh, è allora probabile che sia proprio questo il meccanismo che contribuisce a facilitare l’insorgere della sclerosi multipla. E si tratta di informazioni preziosissime, visto che della maggior parte dei fattori genetici noti non si conoscono ancora i possibili meccanismi d’azione. Per questo motivo, studiare i due aspetti contemporaneamente ci permetterà di identificare nuovi bersagli terapeutici e quindi nuovi farmaci e terapie per combattere la sclerosi multipla. Grazie ai finanziamenti di AISM e la sua Fondazione FISM, con il mio team abbiamo utilizzato questo approccio innovativo per studiare il genoma di migliaia di sardi».
Cosa ci insegna lo studio sulla popolazione sarda?
«È una popolazione perfetta per questo tipo di ricerche perché a livello genetico è rappresentativa dell’intera popolazione europea, ma al contempo presenta alcune sequenze di geni, come quelle collegate all’insorgenza della sclerosi multipla, con una frequenza molto più elevata rispetto al resto del continente. Per questo motivo è possibile identificare la presenza di associazioni tra geni e malattia più facilmente e con un campione più contenuto, ma al contempo i risultati ottenuti possono essere estesi facilmente al resto delle popolazioni europee. Studiando l’intero genoma di pazienti affetti dalla malattia e quello di persone sane abbiamo quindi potuto individuare moltissime nuove variabili quantitative collegate con la malattia e con fattori di rischio genetico noti di cui spesso non si conosceva ancora il possibile meccanismo di azione. Parliamo di geni come TNFSF13B, che codifica la proteina Baff, di cui abbiamo individuato una variante, coinvolta nella sclerosi multipla, che aumenta il numero di linfociti B circolanti e quindi il rischio di reazioni autoimmuni».
In luce di queste scoperte, nella lotta alla sclerosi multipla sarà più importante studiare il contributo dei fattori genetici legati alla malattia, o quelli ambientali?
«È noto che i fattori ambientali hanno un peso maggiore nella genesi della sclerosi multipla. Ma non si tratta di un derby, non ci sono vincitori e vinti ed entrambi gli aspetti sono egualmente importanti. Gli studi di genetica sono più semplici da realizzare, e danno risultati più certi. E le conoscenze che ci forniscono aiutano a comprendere meglio anche il ruolo che può giocare l’ambiente. In alcuni casi, infatti, è possibile utilizzare i geni di cui conosciamo bene gli effetti come surrogato per studiare il coinvolgimento di un parametro influenzato anche da comportamenti individuali, o dall’ambiente. Con il vantaggio che, trattandosi di geni, è possibile verificare con molta più sicurezza se esiste un legame causale con la patologia».